Sotto sequestro i camini della Dm Elektron

BUJA. Non c’è pace per la Dm Elektron di Buja. All’incertezza sul futuro dell’azienda, che da mesi vede al lavoro sindacati e Regione impegnati nel tentativo di cercare una quadra con la proprietà per tentare di costruire le condizioni affinché l’azienda produttrice di schede elettroniche possa continuare a lavorare in Friuli, non si è aggiunto solo il colpo di coda dell’emergenza Covid-19, ma anche il sequestro da parte dei carabinieri del Noe di alcuni camini privi di autorizzazione.
L’indagine, iniziata prima che esplodesse la pandemia, si è conclusa con il sequestro dei camini disposto dalla Procura ed effettuato nei giorni scorsi dagli uomini del Noe.
Con quali effetti sulla ripresa della produzione? Se lo chiedono lavoratori e sindacati che ieri, avuta notizia dell’operazione, hanno inviato non una ma due richieste urgenti d’incontro: una l’hanno indirizzata all’azienda affinché organizzi a stretto giro un incontro per chiarire la situazione, l’altra alla Regione perché convochi urgentemente le parti a un tavolo di crisi.
La necessità di avere risposte si fa oggi più urgente che mai per i circa 70 dipendenti di Dm Elektron che si trovano per la gran parte a casa, in cassa integrazione Covid, salvo un paio di diretti alla produzione e alcuni impiegati. La fabbrica è ferma e ora il sequestro dei camini sembra ipotecare una volta in più la possibilità di veder in breve ripartire l’attività produttiva.
«Abbiamo chiesto un incontro immediato all’azienda – hanno fatto sapere ieri pomeriggio David Bassi (Fiom Cgil Udine) e Pasquale Stasio (Fim Cisl Fvg) – così come alla Regione per chiarire la situazione e capire una volta per tutte quali sono le concrete possibilità di riapertura del sito produttivo di Buja. Nell’ultimo confronto – affermano in sindacalisti – avevamo discusso della possibilità di far rientrare alcune produzioni dalla Romania a Buja e vogliamo capire se e come il sequestro incide su quest’eventualità».
A preoccupazione dunque si aggiunge preoccupazione. «I lavoratori si vedono sfuggire di mano la possibilità di tornare al lavoro e sono costretti a vivere con un ammortizzatore sociale che l’azienda non anticipa dovendo così attendere i tempi di liquidazione dell’Inps – continuano Stasio e Bassi –. Sono stati in cassa integrazione per 9 settimane e ora ne stanno facendo ulteriori 5. Ora più che mai non possiamo permetterci di aspettare oltre – concludono – l’azienda deve parlare con la delegazione sindacale».
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