(San) Francesco Cavani

di Gian Paolo Polesini
Cos’è ‘sta mania della Cavani per Francesco, il santo di Assisi? Possiamo pure comprendere una folgorazione, succede. Tre film, però. 1966, 1989, 2014 (su Raiuno).
Ogni vent’anni la signora Liliana s’inventa uno sguardo diverso, piccoli spostamenti del cuore, altro non si può fare. Oddio sì, le facce cambiano: Lou Castel, Mickey Rourke e l’impronunciabile Mateusz Kosciukiewicz. Infatti, il suo, è un cognome più utile agli esercizi dei logopedisti che a identificare subito un attore. «Ah, già visto questo… e chi è?». «Un certo Mateusz vattelappesca… molto vattelappesca».
Comunque. Resta ovviamente fissa, invece, la figura del dissoluto ragazzo di buona famiglia, un giorno deciso a spogliarsi degli averi (del padre) per far del bene. Certo, ogni epoca legge nella metamorfosi del giovane un senso diverso e il confronto genera tre Francesco diversi.
Detto brutalmente non è questo il decennio che lo potrebbe capire meglio degli altri. Viviamo il momento della sperata moltiplicazione dei patrimoni e non di una volontaria dissoluzione. Li cediamo malvolentieri soltanto alle ladrerie dell’economia italiana, figurarsi ai poveri. I ricchi, poi, sono più avari di Arpagone e i benestanti se la passano male.
Allora va bene un ripasso su Francesco? Vuoi mai... Vuoi mai cosa? Se è quello lo scopo, tempo perso.
C’è dell’altro: l’infinita noia che ti colpisce in fronte quando scorre la biopic del santo. Infatti, dopo un’ora, la mano sul telecomando ti parte da sola. Non è “essere infedeli”, per carità, è inevitabilmente un format monotono e basta.
Sarà un rifiuto nostro, ma appena sullo schermo compare un qualcosa al di sotto del 1500, ci vengono i tic nervosi. Nessuno mai riuscirà a ricreare, al cinema, un credibile fondale al Medioevo. Alto o basso, fa uguale. Ogni volta è come un’imitazione della Vuitton: assomiglia parecchio, però vedi che è finta.
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