Rogo e ricatti mafiosi Difese al contrattacco

È stato il giorno delle difese al processo sul rogo doloso della villa degli assicuratori Scolaro avvenuto nella notte fra il 28 e il 29 dicembre 2012 e le condotte estorsive tentate o consumate in stile mafioso denunciate dai due professionisti pordenonesi. Cinque gli imputati, chiamati in causa a vario titolo: l’imprenditore sacilese Raimondo Lucchese, Pietro Ferraro, calabrese residente a Marcon, il collaboratore di giustizia siciliano Emanuele Merenda, Vincenzo Centineo di Salgareda e Mario Tironi, uomo d’affari macedone.
L’avvocato Frigo, per Tironi, al quale si contesta in alternativa il furto o la truffa per la valigetta di Lucchese sparita (con 500 mila euro in banconote da 500), ha obiettato che non vi è alcuna prova che la valigetta contenesse una simile somma, c’è solo la parola di Lucchese al riguardo mentre la sorella (chiamata come teste al processo) si è limitata a confermare che c’erano tanti soldi, perché il fratello gliela avrebbe esibita. Il legale ha espresso perplessità sull’origine di quel denaro: i due fratelli hanno dato versioni discordanti. Una donazione del padre defunto collocata dalla sorella fra il 1995 al 2002 in lire, dopo il 2005 da Lucchese. Eppure dopo «la pretesa sottrazione» secondo Frigo Lucchese non si sarebbe dato da fare per recuperare una somma così importante, né ha sporto denuncia subito. L’avvocato Galletti, che assiste Centineo, ha citato una serie di intercettazioni e in particolare la registrazione della conversazione al bar di Fontanafredda del 29 novembre 2012: ad avviso del legale scagionano Centineo. Lucchese ha organizzato l’incontro al bar con Centineo e gli Scolaro per scoprire se gli assicuratori, che gli avevano presentato Tironi, fossero coinvolti nella sparizione della valigetta. È proprio Centineo a suggerire all’imprenditore di registrare tutto. Se davvero avessero voluto mettere in atto una tentata estorsione, come ha contestato l’accusa – il ragionamento di Galletti – non avrebbe avuto senso precostituirsi una prova a loro carico in un futuro processo. La registrazione va intesa come una prova della loro buona fede. Galletti ha osservato che al bar i toni sono accesi, ma non viene proferita alcuna minaccia, non ci sono mani sotto la tasca della giacca per simulare pistole, non sono stati chiesti soldi. La difesa ha puntato il dito contro Salvatore Bitonti (già condannato per tentata estorsione, estorsione e l’incendio doloso a sei anni di reclusione). Centineo ha spiegato di essere stato usato da Bitonti e all’insaputa di Lucchese come figurante in questo teatrino.
Anche secondo l’avvocato Giacomazzo, che difende Lucchese, a tessere le fila della farsa in salsa mafiosa era solo il Bitonti. Il legale dell’imprenditore ha elencato una serie di intercettazioni di Bitonti che dimostrano come più volte questi abbia sottolineato con i comprimari che non bisognava parlarne con Lucchese. Era lo stesso Bitonti, ha sottolineato Giacomazzo, da un lato a terrorizzare gli assicuratori con storie di ritorsioni mafiose, dall’altro a instillare dubbi sul coinvolgimento degli Scolaro nella sparizione della valigetta allo stesso Lucchese. Fra l’altro in una conversazione intercettata dagli inquirenti Bitonti ha spiegato di aver inventato «una piccata» e di starci lavorando da mesi. La conferma indiretta che al bar di Fontanafredda non ci sia stata una tentata estorsione si desume, secondo la difesa, anche da quanto racconta la moglie di Walter Scolaro: il 2 dicembre, dopo l’arrivo di Bitonti che mostra il telefonino con la foto di “Enzo il siciliano” «cominciò il terrore con la T maiuscola». Non quindi al bar di Fontanafredda Lucchese, secondo il suo difensore, chiedeva agli assicuratori di partecipare alla sua perdita visto che gli avevano presentato Tironi, ma fra di loro i rapporti erano buoni, tanto che sono andati insieme al salone nautico di Genova. Il processo è stato rinviato per repliche e sentenza al 25 settembre. —
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