Processo Casalesi-Gaiatto, Donadio nega l’estorsione

Un bancale di soldi falsi dall’ex Jugoslavia da riciclare, gli incontri con il broker Fabio Gaiatto (in odor di fallimento) per riavere i soldi dell’amico Samuele Faè e i contatti con un gruppo di camorristi che avevano lo stesso problema. Il progetto di stampare banconote da 20 euro false.
«Tentavo ogni strada per risolvere i miei problemi economici. Se solo una di queste operazioni fosse andata in porto sarei ora in galera più felice, ma nessuna è andata a buon fine: cornuto e mazziato».
Intercettazioni? «Chiacchiere»
Seconda giornata di interrogatorio fiume in aula bunker per Luciano Donadio, l’uomo che la Procura accusa di essere stato a capo per vent’anni di una associazione per delinquere di stampo mafioso: “i casalesi di Eraclea”.
Come già nell’udienza precedente, i pm Roberto Terzo e Federica Baccaglini hanno contestato per ore anni e anni di intercettazioni, episodi di ogni natura: estorsioni, minacce, traffico di monili d’oro falsamente spacciati per antichi, armi, soldi falsi, contatti con i casalesi, quelli “veri” di Casal di Principe. Donadio ha replicato per ore ed ore. La sua linea difensiva è sempre la stessa: «Io sono di Casale, non per questo un casalese camorrista», «fino al 2006 non avevo fatto questi reati, ero un imprenditore stimato, avevo linee di fido per un milione in varie banche. Poi l’arresto per usura – che non ho mai commesso – mi ha distrutto.
Nessuno mi dava più lavoro, ho dovuto fare debiti per pagare i dipendenti, la mia vita è stata arrampicarmi sugli specchi». Un po’ fa la vittima degli eventi, un po’ si compiace: «Conosco tutti e tutti mi chiedevano un consiglio per risolvere i loro problemi».
Nega di essere un camorrista, neppure di riflesso. Interrompe in continuazione le domande dei pubblici ministeri per puntualizzare, circostanziare, chiarire, ma quando la pm gli dice: «Ora stia zitto, mi faccia finire». Lui si gira e sbotta con tono duro: «Zitto lo dica a suo fratello».
Soldi falsi e antichità tarocche
I pm gli chiedono dell’ormai famoso bancale di dinari falsi, da scambiare in banca: «Io avevo solo una valigetta, con poche mazzette, mi pare fosse di Pietro Morabito. Dovevo solo vedere se qualche banca se li comprava: che dovevo fare, mangiarmeli? Era una leggenda che girava l’Italia che quei soldi fossero di fantomatici generali dell’ex Jugoslavia».
«Lei parla di chiacchiere – insistono i pm – ma vi siete dati tanto da fare, anche con Samuele Faè». «Anche lui è corso dietro queste fantasie. Disse che poteva portali in Vaticano, ma non so se l’ha fatto. Tutti dicevano tante cose, ma io quel bancale non l’ho mai visto: ci stavo dietro perché ero disperato».
Gaiatto, i milioni di Faè e la camorra
Che ruolo ha avuto nell’estorsione a Gaiatto? «Non ho estorto nessuno. Nel 2017 vengo a sapere che Faè aveva fatto fortuna: avevo bisogno di soldi (avevo vinto una causa con Equitalia, ma nel frattempo il mio debito era salito) e volevo vendere un capannone e un terreno per 400 mila euro.
Chiesi a Samuele di comprarli: mi disse di aver affidato 7 milioni a un broker, che mi andassi ad informare io per riaverli indietro, perché lui l’aveva denunciato e non voleva averci a che fare. Con Fabio (Gaiatto) ho creato un buon rapporto.
Lui mi disse che stavano arrivandogli 50 milioni. Io ho un modo carismatico di fare e così mi sono presentato all’assemblea dei risparmiatori a Portogruaro per tranquillizzarli. Il mio obiettivo era che Gaiatto restituisse i soldi a Samuele».
Un racconto a tratti surreale. I pm chiedono dei “monili antichi” d’oro che Faè aveva ricevuto da un imprenditore vicentino: «Mi aveva chiesto di verificare se fossero autentici. Erano d’oro, ma non antichi. Alla fine li ho venduti per 40 mila euro uno zingaro sloveno». Ma non erano di Faè? «Mi servivano i soldi: li avrei restituiti ristrutturandogli la casa».
I soldi dei casalesi
«Un giorno mi chiamano dal punto Snai di mio figlio, perché ci sono dei casalesi che vogliono parlarmi: mi dicono che hanno investito 10 miloni con Gaiatto, che Fabio li aveva mandati da me, perché proponessi a Faè di fare un concordato, per avere 4 dei 7 milioni.
Lui mi disse sì, ma solo con bonifico. Chiesi a Raffaele (Buonanno), mi disse che si poteva fare. Se avesse preso i soldi li avrei presi anche io. Loro mi dissero che c’erano 250 mila euro per me e 100 mila per Raffele. Poi quando ho visto che non arrivava nulla da Gaiatto sono andato a Roma da Salvatore Iovane, ma solo per andare alla fonte: lui mi disse di lasciar perdere e far finta che non fosse successo nulla».
Tutto normale per Donadio. Al quale però non manca la battuta. Quando il pm Terzo gli chiede come ha conosciuto lo Specchiato, killer di camorra, Donadio dice: «Nel 2001-2002 ricevetti una telefonata minacciosa da uno che si presentò come Daniele Corvino “lo Specchiato”, dicendomi che dovevo dare 50 mila euro per non avere problemi con la mia famiglia. Mi informai con Raffaele, che disse che erano quelli che facevano la guerra con i Casalesi. Mi diede appuntamento al casello di Noventa: se ne uscì con la pistola e mi mostrò anche un mitra.
Mi disse che siccome lavoravamo tanto, dovevamo pagare. Gli diedi 1500 euro, poi altri mille. Potevano catturarlo in piena estorsione a mano armata: perché la Squadra mobile non è intervenuta a difendere un imprenditore estorto? ».
Pronta la replica del pm Terzo: «La Mobile non ha documentato rapporti conflittuali, ma amichevoli».
Giovedì 17, nuova puntata: voce agli avvocati della difesa Alberini e Gentilini.
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