Pordenonesità a tinte forti nei quadri dell’artista Altio

Il racconto della “città che non c’è più”: l’atmosfera delle rogge e dei mercati

PORDENONE. Gli angoli dimenticati di Pordenone tornano a rivivere attraverso le opere di Giorgio Altio. L'anima della città è proposta a tinte forti nei quadri, in cui l'artista mette passione nel ricostruire i luoghi travolti dal boom economico degli Anni 50 e 60, o trasformati nel grigiore dell'anonimato a causa di un'identità perduta con il passare del tempo.

L'uso dei colori vivaci dà vitalità alle atmosfere de 'na volta: le vecchie osterie, le calli silenziose, le corti dei palazzi, gli affollati mercati nelle piazze. Ricordi ormai sbiaditi, delicate nostalgie. I dipinti di Altio sono frutto di pazienti ricerche attraverso vecchie cartoline e preziose testimonianze. Lui però ci aggiunge l’estro e la creatività.

L'ultimo cantore. I sentimenti che ieri Ettore Busetto esprimeva attraverso le poesie vernacolari, e che Maurizio Lucchetta trasmetteva con la sua satira graffiante, oggi Giorgio Altio li ripropone usando tavolozza e pennelli.

Tocca a lui tenere viva la memoria nel solco delle tradizioni pordenonesi, come d’altra parte fecero altri pittori con stile altrettanto originale, per citarne alcuni: Mario Moretti, Angelo Giannelli e Giorgio Florian. Cade su di lui un'eredità importante, che non può andare dispersa.

Così nel suo atelier ricavato al piano terra di palazzo Cattaneo, in corso Vittorio Emanuele II, si accumulano, nel disordine d'artista, i dipinti che raccontano una città “che non c'è più”. Scrisse Busetto che basta nominare n'antica mura, un portego, 'na storia: e subito se sveia 'na memoria. Altio è rimasto il fedele interprete di quei cantoni veci, pieni di ricordi, che i parla a tuti i cuori.

Ora i pezzi più significativi del suo lavoro sono in mostra (ancora per qualche giorno) nella Sala espositiva della Provincia, in corso Garibaldi, grazie all’iniziativa del Comune e dell’Associazione Panorama.

Si tratta di una rassegna di 150 opere con un omaggio, a parte, al genio del grande Giovanni Antonio de' Sacchis, detto “il Pordenone”, espressione massima del nostro irripetibile Rinascimento pittorico, un artista mai ricordato abbastanza in casa propria, segno di una scarsa attenzione riservata a tutto ciò che rappresenta storia e identità.

Microcosmi di vita. Dalla collezione di Giorgio Altio spiccano i quadri con le ricostruzioni fedeli di luoghi e di ambienti: la vivacità dei mercati nelle piazze; i palazzi affrescati de la vecia Contrada, che si affacciano sul lungo Corso, il quale, per fortuna, è rimasto una specie di Canal Grande in porfido, senz'acqua; piazza della Motta con il suo “nobile interrompimento”, cioè con l'antico fabbricato ad archi che la separava dall'esterno, custodendone all'interno il cuore pulsante della città, luogo de bon umor, de canti e sbacanade; le silenziose calete che conducono alla chiesa del Cristo; il ponte delle Muneghe che non c'è più, sopra la roggia dei Mulini (oggi tombinata), ricreato con il fascino dell'Ottocento; la vecchia pescheria, dipinta con i suoi banconi di marmo coperti da un'ampia tettoia; il teatro Licinio, che era il punto di riferimento della vita culturale di Pordenone; le tante chiese (di molte delle quali non vi sono più tracce), luoghi sacri dell'intensa religiosità popolare; le numerose sagre parrocchiali, ravvivate dalle luminarie, e le affollate processioni.

E, in una pittura animata dalle tonalità forti come quella di Giorgio Altio, non potevano mancare le osterie, posti semplici, ma ricchi di grande umanità, crocevia di notizie e di pettegolezzo.

Dalle cucine, sempre in attività, si diffondeva ovunque l'odore delle trippe che si mescolava con quello inconfondibile del baccalà. Tanti locali erano segnalati all'esterno da insegne artistiche, ben lavorate, e delimitati da rigogliosi pergolati di vite: i grappoloni di uva fragola profumavano fino all'autunno.

“Zénte de Pordenon”. Esposti in un angolo, ci sono anche i ritratti di alcuni personaggi stravaganti, semplici ma veri, che hanno arricchito la pordenonesità. Tre su tutti. Bruno Redivo (semplicemente Bruno, come voleva lui), con la divisa da barman, dietro il bancone del Caffè Municipio.

Accoglieva ogni avventore con la sua fragorosa risata. In pratica, riusciva a prendere le prenotazioni prima che i clienti si fossero seduti e, spesso, li anticipava nelle scelte perché ricordava gusti e abitudini. Nel quadro non poteva non esserci un riferimento al “Centino”, l'aperitivo che lui preparava sul momento: vermouth, vino bianco, un po' d'amaro, un cubetto di ghiaccio, una scorzetta di arancia e una spruzzatina di seltz.

Una ricetta molto semplice: «Non avevo passato tutta una vita a correggere caffè? E così - spiegò divertendosi - feci altrettanto con il vino, dandogli un aspetto più invitante». Gino Marta (dottor professor Gino, come amava farsi chiamare) era l'estroverso “menestrello del colore” che girovagava per le vie e le piazze con il cavalletto a tracolla e l'immancabile tela sotto il braccio.

Sapeva cogliere le bellezze di Pordenone, dipingendole. Le sue opere improvvisate venivano offerte a chi gli capitava a tiro per quattro soldi. Infine, l'affabile Lisa Vazzoler che aveva ereditato la trattoria dalla suocera, mantenendo il suo nome: Catina, appunto.

Per comprendere la fama del locale è sufficiente ricordare un vecchio aneddoto, secondo il quale alla proprietaria fu recapitata una cartolina da Parigi che, al posto dell'indirizzo, recava la semplice indicazione: «Alla siora Catina del baccalà - Pordenone». Era l'osteria della piassetta più frequentata.

Storie di acqua. Nelle opere proposte da Altio si rivedono i barcaioli, perché il Noncello era l'importante fiume navigabile onde da Venezia in barca tutto si porta, come scrissero gli storici della Serenissima. Infatti, uno dei dipinti cui l'artista tiene di più è quello del “Redentore”, un grande barcone lungo una trentina di metri che era usato per trasportare merci.

Risalta come una sorta di drago nero con due occhioni bianchi. «Ho vissuto tutte le peripezie di quel vecchio burcio - racconta Altio - perché il mio borgo natio è Vallenoncello, un luogo di grandi e continue scoperte per noi bambini.

Ci spingevamo, per giocare, fino alla Dogana, dove c'era il piccolo porto. E lì si fermò per sempre l'imbarcazione di capitan Sebastiano Dirindin, discendente di una storica famiglia di barcaioli. Per noi il “Redentore” era una meta molto ambita. Fu completamente smantellato attorno ai primi Anni 50 e si portò con sé i ricordi della nostra spensieratezza». La storia è impietosa: la barca fu fatta a pezzi. Il ricavato fu legna da ardere.

Nella mostra rivive, in tutte le sue sfaccettature, la città dimenticata, grazie alle pennellate di Giorgio Altio, il pittore dal sorriso spontaneo, che usa colori vivaci per la sua Pordenone quasi a voler risollevare una realtà un po' troppo immusonita.

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