Pensioni, donne sottopagate rispetto ai maschi e resteranno al lavoro 22 mesi in più

UDINE. Le pensioni fotografano anche una discriminazione di genere. Perché le donne hanno redditi inferiori a quelli degli uomini in media del 33 per cento, pari a oltre 7 mila euro in meno in regione: 15 mila contro 22 mila 300.
Dato che però rispecchia anche la minore e più discontinua partecipazione femminile al mercato del lavoro, più marcata in passato rispetto a oggi. Inoltre, le donne sono anche più spesso titolari di pensioni sociali o, in virtù della maggiore longevità, di quelle di reversibilità, caratterizzate da importi minori.
Sul dato incide chiaramente anche il differenziale salariale (il cosiddetto “gender gap”) e la maggiore diffusione del part time tra le donne. Nonostante ciò la legge Fornero colpisce anche il “gentil sesso”.
Dal primo gennaio 2016 in tutta Italia le donne dovranno lavorare fino a 22 mesi in più per accedere alla pensione di vecchiaia. È scattato infatti il gradino previsto dalla legge, ed entrano quindi in vigore i nuovi requisiti.
In pratica, le lavoratrici del settore privato potranno mettersi a riposo a 65 anni e 7 mesi (prima il limite era 63 anni e 9 mesi) mentre quelle autonome dopo i 66 anni e un mese.
Questa è una delle novità che porterà il 2016 sul fronte pensionistico, tra cui anche l’aumento di quattro mesi per tutti, legato al gradino introdotto dalla legge Fornero e connesso alle aspettative di vita.
Gli uomini invece andranno in pensione di vecchiaia a 66 anni e sette mesi (66 anni e tre mesi fino a ieri) mentre per accedere alla pensione anticipata, serviranno 42 anni e dieci mesi di contributi (le donne, con 41 anni e dieci mesi di contributi).
La questione previdenziale non riguarda soltanto gli anziani, ma anche i giovani, a cui è applicato interamente il sistema contributivo e che dunque percepiranno una pensione commisurata ai contributi versati durante la loro vita lavorativa.
Rispetto alle generazioni precedenti i giovani hanno tendenzialmente carriere lavorative molto più discontinue, segnate spesso anche da periodi più o meno lunghi di disoccupazione a cui non corrispondono versamenti previdenziali, basti pensare solo agli ultimi anni di crisi e all’esplosione a livello nazionale della disoccupazione giovanile.
Inoltre è maggiore la probabilità di cambiare le tipologie di rapporti di lavoro, non sempre afferenti alle stesse casse previdenziali, con il rischio concreto di perdere parte dei contributi versati.
Con redditi poco elevati, che spesso caratterizzano i primi anni della vita lavorativa, diventa poi molto difficile alimentare la previdenza complementare per costruire nel tempo un’integrazione alla pensione.
Se per i giovani l’ingresso nel mercato del lavoro avviene più tardi rispetto al passato, è anche vero che l’età di uscita sarà molto superiore rispetto a quella delle generazioni precedenti.
Le recenti riforme hanno aiutato a migliorare la sostenibilità finanziaria del sistema previdenziale, perché la spesa pensionistica sta rallentando i propri tassi di crescita e, secondo le ultime previsioni dell’Ocse, nel medio lungo termine tenderà a stabilizzarsi e forse anche a ridursi nonostante l’elevato invecchiamento della popolazione.
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