Passeggiando nella mia città... global: ma gli indigeni che fine hanno fatto?

Dov’è l’angioletto di U? Il putto se ne sta al fresco della cattedrale, ma almeno – così mi auguro – dovrei incrociare il suo instancabile papà letterario, quello che già all’alba gira in bicicletta alla scoperta degli angoli magici della città per scriverne a pro degli ignorantoni che la popolano. Io ho bisogno di lui, di essere rassicurato e anche calmato un po’, in questa deserta mattinata d’afa che mi porta in centro per incombenze bancarie. Ma sono proprio a Udine? O un sortilegio mi ha scaraventato su un pianeta global in cui gli unici assenti sono gli indigeni?
Ore 11, parcheggio comodo in viale Ungheria. Fa caldo, scelgo il passaggio tra i vialetti ombrosi del Zardin dal Vescul. Da un piccolo anfiteatro appartato, mi giungono bisbigli incomprensibili. Sono una decina, afgani o pachistani, tutti giovani, quasi immobili a succhiare silenzio e frescura persino dai piedi di infradito calzati. Si muovono soltanto le mani sui telefonini. Buondì ragazzi, come va? Nessuno risponde, si guardano tra di loro, forse mi prendono per matto. Beh, non sono matto, vi ho soltanto salutati!
Poco oltre, sulle strisce pedonali di fronte al vecchio tribunale, avanza un campione della negritudine: stazza e muscoli stanno dentro un completo scuro munito di cravatta, che si muove con passo elastico e fierezza. Forse un religioso o un mediatore culturale. Somiglia a Sidney Poitier, quello del film «Indovina chi viene a cena?». Ecco: e se una delle tue figlie si fosse presentata a casa mano nella mano con uno così, cosa avresti fatto? Pensiero intrigante e provocatorio che mi tiene occupato per qualche decina di passi... E poi mica è successo, che cavolo ti tormenti a fare.
Percorro vicolo Lovaria, oscurato all’uscita che dà su via Vittorio Veneto da un autocarro appena parcheggiato alla selvaggia. Vi scende un omaccione a torso nudo in pantaloni corti cachi e scarponi da lavoro sporchi di malta. Finalmente uno dei nostri, un bel muratore di Forgaria o di Flambruzzo. La manona sembra stritolare il cellulare, nel quale il tipo riversa frasi secche, ultimative. E incomprensibili. Kossovaro, bosniaco, forse serbo o albanese.
«Int di Udin, furlans, dulà sêso?» No, no, quelle due siorette là, con le buste della spesa gonfie, sono proprio udinesi. Grazie al rosso, le raggiungo al semaforo con via Manin. Da vicino non sono più tanto sicuro: biondicce, tra i cinquanta e i sessanta, abiti a fiorellini fuori moda, labbra sottili e deformate dal rossetto sbavato, gote imperlate d’afa, sofferenti. Per farla breve: di Kiev o russe, probabilmente badanti. Attraversano piano piano parlando fitto in un idioma al solito incomprensibile.
Su quelle altre due non sbaglio, vecchiette coriacee col marchio Ue, Nord Europa, inglesi o scandinave: cappellino vezzoso e ombrello bianco a difendere la pelle candida di volti levigati. Le uniche anime nel cuore di questo martedì desertico, prestate da Grado o Lignano da cui sono evase in fregola culturale. Cinguettano “oh beautiful” mentre si concedono un selfie ai piedi del terrapieno di piazza Libertà.
Il nero torna a dominare sotto l’ex Upim. Mi intercetta il ragazzo dei libri con le storie africane: «Ancora! Ma se te li ho comprati l’altro giorno...». Quello, almeno, è un lavoro, un tentativo di lavoro. Lui ci prova. Non altrettanto l’altro, che mi affronta con la mano destra tesa: vuole soldi, ha fame, dice. Bene, nei paraggi c’è una pizzeria al taglio, mi offro di pagargli lo spuntino con Cocacola.
Nossignore, lui fa gli occhi brutti e pretende soldi cash. Allora mi incazzo, salta fuori la parte peggiore di me... Gli urlo dietro che si vergogni. Una furia del genere mi era già montata con quello che elemosinava fuori del supermarket. Gli avevo proposto 20 euro se mi aiutava con la siepe: io taglio e tu metti nei sacchi e poi portiamo assieme nel cassone del verde. Roba di neanche due ore. Si era concentrato – giuro che sentivo il ticchettare del suo cervello mentre faceva i conti – e poi mi aveva risposto di no, che lui rimaneva lì. Evidentemente guadagnava di più a piagnucolare tendendo la mano.
Ho bisogno di sapere se sono nel giusto. Mi sembrava d’esserlo quando, volontario all’Immacolata di don De Roja, bazzicavo con albanesi, romeni usciti dai tombini di Bucarest, con afgani e magrebini e singalesi, tentando di insegnare un po’ di italiano e di far passare un messaggio che mi pareva onesto: vi accogliamo, vi manteniamo, vi diamo un mestiere (c’erano i corsi per falegnani, meccanici, saldatori), voi impegnatevi e imparate, così acquisite una professionalità da mettere a frutto nella vostra patria, artefici del progresso dei vostri popoli.
Mi rispondevano di sì, più che altro per tagliare corto, perché la smettessi di rompere. Altro avevano per la testa, con le dovute eccezioni e per tutti valga l’esempio di Kadim, il mio amico afgano, rispettoso e gran lavoratore, integrato con famiglia.
Lavoro, osservanza delle regole, benessere e rispetto meritati coi fatti. Era lo stile degli emigrati friulani, che gli alternativi (anime buone o ingenue o interessate), sostenitori dell’accoglienza a oltranza, tirano oggi in ballo per invocare reciprocità e restituzioni. Parallelismi improponibili.
Volevi emigrare in Canada? Dovevi passare al vaglio di tre commissioni, e il primo anno lo passavi a meno 30 su al Nord a picconare lungo le massicciate della ferrovia. Flussi regolati, programmati, contingentati dalla Svizzera all’Australia. Furono i governi locali, da fine Ottocento e per metà del secolo scorso, a spalancarci le porte dell’Argentina, affamata di braccia per colonizzare gli sconfinati territori vergini della pampa. E là il Friuli trasferì i suoi valori e la cultura del lavoro. Vibravano d’orgoglio le parole dell’avvocato Antonio Roja, uno dei sorestans di Colonia Caroya, l’enclave friulana a 50 chilometri da Cordoba, quando rivendicò: «Come i greci, come i romani, noi abbiamo portato qui una civiltà».
Cosa può portarci questa gente che andiamo a raccogliere nel Mediterraneo? In tanti casi neppure la buona volontà. Perché nessuno le ha trasmesso dignità e autonomia, l’ha tenuta nell’ignoranza e nella miseria per sfruttarla sino all’osso, oggi ne esaspera le diversità tribali per lucrare vendendo armi. E allora dico: se ne facciano carico le ex potenze coloniali, che da quelle terre hanno succhiato ogni nettare, anziché far finta di niente.
I passi corrono sul ritmo dei pensieri, diventano furiosi. Butto l’occhio nei negozi vuoti, dove le commesse avvolte dall’aria condizionata spolverano lo scaffale già lucidato mezz’ora prima. Una porta è aperta, s’affaccia una cinese simpatica nella sua ingenua petulanza: «Tu entla... pantalone, scalpe a buon plezzo... Vuoi camicia? ». No, cara, complimenti per l’intraprendenza commerciale, voglio altro io. Spero fino all’ultimo che si materializzi l’angioletto di U o il suo padre letterario, voglio parlare del Tiepolo, di Lasagna e di Thereau, del messianico prof Cecotti che torna in politica. Come una volta, con leggerezza.
Ma mi sa che presto arriveranno rese dei conti dure, epocali. E se ci faremo trovare impreparati – privi di capi illuminati e di percorsi in cui il cuore non batta troppo lontano dall’intelligenza e dal realismo –, l’onda ci investirà mandando il nostro piccolo meraviglioso mondo di cristallo in mille pezzi.
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