Pasolini, il caso nato da un rapporto dei Cc

SAN VITO. La vicenda giudiziaria dei cosiddetti “fatti di Ramuscello” a carico di Pier Paolo Pasolini prese le mosse da un verbale dei carabinieri di Cordovado datato 15 ottobre 1949, un mese e mezzo dopo la festa di Santa Sabina di fine agosto, anche se alcune testimonianze e gli stessi verbali dell’Arma parlano del 30 settembre.
Incriminato di corruzione di minori (denuncia poi ritirata) e atti osceni in luogo pubblico, Pasolini fu difeso da un collegio difensivo del quale faceva parte l’avvocato Bruno Brusin, che già frequentava l’allora insegnante residente a Casarsa dai tempi degli studi universitari.
Secondo l’accusa, Pasolini si era appartato con quattro ragazzi, dei quali uno sotto i 16 anni, nel corso della sagra. La conseguente azione giudiziaria fu la prima di un’umiliante trafila di accuse per Pasolini.
L’intellettuale era già allora un bersaglio appetibile, sia dai democristiani locali sia dal “suo” Pci. La federazione locale del partito, ancor prima del processo, procedette con l’espulsione per «indegnità morale», comunicandola su l’Unità del 29 ottobre 1949.
Nel 1950, la pretura di San Vito condannò Pasolini e due dei ragazzi per atti osceni.
Nel 1952, l’assoluzione in appello per insufficienza di prove sugli atti osceni, mentre non si procedette (in un caso perché il fatto non costituiva reato, nell’altro per mancanza di querela) per corruzione di minori.
Determinante fu l’abilità di Brusin. Ma per Pasolini, raggiunto dall’assoluzione mentre era già a Roma, fu una vicenda devastante: era fuggito con la madre nella capitale, tra l’altro dopo aver subito anche l’esonero dall’insegnamento nella scuola media di Valvasone.
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