Paola Del Din, 90 anni di storia: «Ci siamo battuti per la libertà oggi regna il caos»

UDINE. Parlare con Paola Del Din, medaglia d’oro al valor militare, 90 anni compiuti e una lucidità non comuni, è come attraversare i libri di storia e incontrare una passione e una limpidezza che nei testi non possono essere colte.
Signora Del Din, come si racconta la Resistenza oggi?
«È stato un tempo così difficile e complesso, penso che la gente faccia fatica a comprenderlo veramente. A volte mi capita di parlarne ai ragazzi, quando vado nelle scuole. Loro fanno domande, sono curiosi, interessati, ma capire che cosa accadde in quegli anni e cosa ci mobilitò a costo della nostra stessa vita, al giorno d’oggi, non è facile».
Com’era lei da bambina?
«Ero cicciotta e tranquilla. In famiglia eravamo tre sorelle e un fratello, ma i miei fratelli mi avevano soprannominata “Il placido Don”. I miei genitori si sposarono il 21 novembre 1916, il giorno in cui morì l’imperatore Francesco Giuseppe. Mia madre divenne ben presto la colonna della famiglia visto che mio padre, ufficiale degli alpini, era quasi sempre impegnato al fronte, fino alla prigionia in India. Negli anni eravamo diventati specialisti nell’andarlo a salutare alla stazione».
L’ha aiutata più il coraggio o l’incoscienza?
«Mio padre diceva che ero incosciente. Nel 1944 rientrai da una missione a bordo di un quadrimotore condotto da un pilota polacco e improvvisamente un motore andò a fuoco, mentre l’altro si fermò. Nel panico che ne seguì io mi mantenni calma, pensai che già mi ero confessata e comunicata e che potevo anche affrontare il peggio. Al ritorno, il pilota raccontò a mio padre che non aveva mai visto una ragazza così coraggiosa. Per tutta risposta, mio padre gli disse: “Più che coraggiosa è incosciente”. Io, però, ho sempre pensato che il vero problema non è per chi se ne va, quanto per chi resta. E devo ammettere che ci voleva coraggio, ma anche un po’ di incoscienza per fare ciò che abbiamo fatto».
Ha ricevuto tanti riconoscimenti: la medaglia d’oro al valor militare, la cittadinanza onoraria e ora il sigillo. Qual è quello cui tiene di più?
«Vedere ricordato mio fratello, un cavaliere senza macchia e senza paura, un uomo puro, bellissimo e onesto, è quello il più grande riconoscimento per me. Rendergli merito di cosa ha fatto significa anche riconoscere i valori per i quali noi tutti abbiamo combattuto, non solo io, ma anche mia madre che più di me conosceva i rischi che correvo quando passai a consegnare i documenti agli alleati a Firenze, portandomeli addosso. Mi ripeteva “non farti mettere le mani addosso” e io, poco più che ventenne, non capivo fino in fondo la sua paura. Eppure mi accompagnò a Padova e al suo ritorno lei, moglie di un ufficiale, subì l’umiliazione della prigione, mentre piangeva la morte di mio fratello».
Oggi c’è chi, per motivi di ordine pubblico, vieta di cantare “Bella ciao”. Come la fa sentire?
«Quella era una canzone che cantavano i “rossi” e probabilmente non è nemmeno nata qui. Le polemiche che sono state create intorno a una canzone e alla sua presunta appartenenza sembrano evocare divisioni politiche che con la Resistenza non possono e non devono avere nulla a che fare. Io facevo parte della Divisione Osoppo, noi non ci occupavamo di politica anche se troppe volte siamo stati accusati di essere Badogliani, fascisti e servi dei padroni. Rinfocolare quelle polemiche è un errore grave verso la democrazia ed enfatizza le divisioni politiche».
Avete combattuto per la libertà e oggi nello scontro politico c’è chi viene paragonato al Duce e pure chi si accosta a Hitler.
«Libertà non significa disordine. Se invece di passare il tempo a litigare in Parlamento i nostri politici avessero aiutato il Governo a funzionare, oggi non esisterebbe la Lega, nè i grillini e non ci sarebbe bisogno di protestare. Quando assisto a certe scene o leggo certe notizie mi viene da chiedermi chi me l’ha fatto fare di sacrificarmi per gente che non sarebbe più capace di fare quello che abbiamo fatto noi. Persone che hanno trovato la via spianata e che non apprezzano quello che hanno».
C’è anche chi fischia l’inno nazionale allo stadio...
«Mi è capitato di vedere gente che alla partita di calcio ha fischiato l’inno nazionale. Avrei voluto tirare un paio di ceffoni a quelle persone che, evidentemente, non sanno cosa rappresenta quell’inno e forse non lo meritano nemmeno. Nella mia vita ho viaggiato e ho avuto modo di vedere che ovunque c’è rispetto per la patria, i valori, la bandiera, l’inno nazionale. Mai visto ciò che succede qui per colpa di alcuni imbecilli. Noi speravamo di creare un mondo migliore, per consegnare un futuro alle nuove generazioni, vederli dimostrare disprezzo per tutto questo fa male.»
Cosa non rifarebbe se tornasse indietro?
«Rifarei ogni cosa, senza esitazione, non mi sono mai pentita di quello che ho fatto. Nella vita privata ho cresciuto quattro figli meravigliosi, sono stata sempre una madre severa. Se non mangiavano a pranzo ripresentavo la stessa pietanza a cena e, nonostante fossero bravi studenti, chiedevo loro di impegnarsi anche in altre cose. Quanto all’università, ho sempre preteso che facessero gli esami nei tempi previsti fissando una soglia minima per i voti. Credo che se non si riesce a studiare come si deve è meglio andare a lavorare. Con mio marito, poi, sono stati 50 anni di matrimonio felice, andavamo a passeggiare la sera e in quel contesto, quando non c’erano i bambini, affrontavamo i problemi e le questioni di risolvere».
Lei è stata un’insegnante. Qual è il suo consiglio ai giovani?
«Insegnavo lettere. Mi è dispiaciuto lasciare l’insegnamento, decisi di farlo nel 1965 quando ebbi il terzo bambino: sono una perfezionista, avevo un centinaio di studenti da seguire e non riuscivo a star dietro a tutto come volevo, così decisi di smettere. Ai ragazzi bisogna insegnare che, nella vita, bisogna sempre lottare. Bisogna conquistarsi le cose, imparando di tutto, adattandosi a fare di tutto. Nessun lavoro è disonorevole purchè sia onesto. L’importante è avere passioni, interessi, sogni, continuare a coltivarli senza rinunciarci, senza pensare che le cose debbano arrivare facilmente».
Si smette di essere partigiani?
«Il tempo ci ha ribattezzati partigiani, ma noi eravamo patrioti, io lo sono sempre stata e lo sono ancora. No, non si finisce mai di essere patrioti». Il paracadutismo, la militanza, un ruolo di donna atipico il suo «In realtà le donne dei miei tempi erano figure tutt’altro che deboli: dovevano mandare avanti la famiglia. E poi, quando tiravo di scherma, con me c’erano anche altre donne. L’emancipazione femminile nel nostro Paese però ha ancora molta strada da fare. Le donne hanno le capacità e la forza per arrivare ovunque, l’importante è capire che maschi e femmine hanno intelligenze diverse, complementari, e che la bellezza di cui avere cura non è tanto quella esteriore, è piuttosto qualcosa che viene da dentro e va di pari passo con l’intelligenza».
Il suo accento tradisce le sue origini. Si sente friulana?
«Certo. Sono nata a Pieve di Cadore, ma mi trasferii a Udine quando avevo dieci anni. L’accento l’ho ereditato dalla famiglia della mamma, il friulano non l’ho mai parlato, ma quando ero in America mi mancavano tanto le nostre colline e mi mancava il formaggio latteria friulano».
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