Ospedale, Pordenone si dia una mossa

PORDENONE. Tutto ruota attorno al marchio d’origine “Santa Maria degli Angeli”. Perché si chiama così l’ospedale di Pordenone? Le radici sono ben piantate nella storia. Le prime tracce risalgono al Trecento, quando la Confraternita dei Battuti si impegnò nella cura di un ospizio: un paio di stanzoni, con pochi giacigli che servivano sia agli ammalati sia ai pellegrini.
L’edificio era assai modesto. Si trovava di fronte alla chiesa di “Santa Maria degli Angeli”, ormai chiamata “del Cristo” per la presenza del grande crocifisso, custode della religiosità popolare di quel tempo. Praticamente, il primo abbozzo di sanità assorbì il nome dal luogo di culto e lo confermò nei successivi trasferimenti.
I mezzi di sostentamento di ogni attività venivano assicurati dai lasciti e dalle donazioni alla Confraternita. D’altra parte, in quel periodo, erano gli ordini ecclesiastici più umili a farsi carico delle necessità delle persone in condizioni disagiate, che costituivano la stragrande maggioranza della popolazione.
Il vecchio monastero. Soltanto con l’impegno diretto del Comune si comincerà a parlare di vero e proprio “ospitale”, assegnato alla gestione di medici veri che sostituirono le figure di improvvisati chirurghi, al pari di un certo Florido descritto come «personaggio strambo e ambizioso» che vantava «una lunga esperienza di barbiere e di boia». Una situazione disastrosa, aggravata da «una sconveniente promiscuità, che suscitava scandali di ogni genere».
Attorno alla metà dell’Ottocento intervenne l’amministrazione municipale per acquistare il vetusto monastero delle Agostiniane, da tempo lasciato libero dalle suore e situato accanto alla chiesa “del Cristo”. Era comunque una soluzione provvisoria (oggi sede di rappresentanza della Regione), perché non garantiva un’attività efficiente in locali vecchi e umidi. Mancavano i soldi per metterci una pezza.
L’obiettivo finale fu raggiunto, subito dopo la prima guerra mondiale, con l’acquisizione in via Montereale del nucleo storico della caserma Umberto I. Da quel momento, i destini dell’ospedale (in crescita) si intrecciarono con quelli dei militari (in calo), nel rispetto di una convivenza collaborativa.
Lì, lungo la strada della Comina, si estese il polo della sanità, in un’area vasta al centro della quale, nella metà degli anni Trenta, fu costruito il padiglione del “Sanatorio”, destinato alle cure della tubercolosi, una malattia particolarmente diffusa in quel periodo. Tutt’intorno si allargò un grande parco arricchito da giardini ordinati. E nacque dal nulla il quartiere del Sacro Cuore.
Il salto di qualità. Pordenone cresceva sotto la spinta di un dinamico sistema industriale che mangiava enormi spazi. Nel pieno del boom degli anni Sessanta parte del parco ospedaliero fu sacrificato per realizzare gli alti padiglioni progettati dall’architetto Giovanni Donadon.
Così le due generiche divisioni di “medicina” e di “chirurgia” si diversificarono finalmente in reparti di specializzazione, funzionali a una sanità efficiente e moderna. E vicino al nosocomio, in via del Traverso, fu avviata la scuola convitto “Don Luigi Maran”, un eccellente istituto di formazione del personale infermieristico fondato dalle suore elisabettine.
L’atto finale dell’espansione ospedaliera avvenne, negli anni Ottanta, con la cessione da parte del ministero della Difesa degli ultimi pezzi della caserma Martelli, in cambio di un cospicuo numero di appartamenti, che poi vennero messi a disposizione delle famiglie dei militari nel complesso residenziale “Le Torri”, costruito all’inizio di via Montereale, dove c’era il vecchio stabilimento Zanussi.
I nodi da sciogliere. Gli anni Duemila hanno rimarcato profonde criticità. Ampie parti del complesso non erano più ritenute adeguate ai nuovi parametri della sanità. Per giunta, i padiglioni più alti sono stati dichiarati a rischio sismico. Così l’emergenza ha spronato a individuare soluzioni alternative con inevitabili spaccature politiche e rocamboleschi colpi di scena.
Si sa com’è andata. La giunta regionale guidata da Riccardo Illy ha avviato le procedure per la ristrutturazione (e ampliamento) dell’attuale impianto. Si trattava di una misura “minima”, poi saltata a causa della sconfitta elettorale del governatore.
Successivamente, l’aggrovigliata operazione, stimata attorno a 250 milioni di investimento, è rimasta a lungo in bilico tra due ipotesi: la costruzione dell’ospedale nelle campagne della Comina, che avrebbe dato il via a un’ulteriore avanzata della cementificazione e all’abbandono dell’attuale struttura; oppure l’edificazione, sempre ex novo, nell’area contigua delle caserme dismesse, un intervento di rigenerazione urbana. In realtà, la contesa si è estesa al profilo economico.
La prima ipotesi prevedeva il rischioso ricorso al project financing (almeno 125 milioni), un meccanismo infernale di coinvolgimento dei privati nella sanità, che ha già messo in crisi il sistema di alcuni ospedali del Veneto. I costi aggiuntivi di remunerazione del capitale investito sarebbero stati scaricati sul groppone della sanità pordenonese, mettendo a rischio qualità dei servizi e risorse umane.
La seconda ipotesi, invece, assicurava l’investimento con i soldi della Regione. E la politica come si è schierata? La soluzione della Comina, ideata da Renzo Tondo e dai fratelli Ciriani (con il sostegno di Sergio Bolzonello e di un tentennante Claudio Pedrotti), si è scontrata con quella opposta dell’intervento nel sito di via Montereale, sostenuta da un agguerrito comitato civico trasversale ai partiti e da una parte consistente del Pd.
La vittoria elettorale di Debora Serracchiani ha spostato l’ago della bilancia verso quest’ultima ipotesi. La decisione è irreversibile.
Un’idea di città. L’atto finale tiene conto delle dinamiche di sviluppo di Pordenone. La città è infatti proiettata verso dimensioni diverse dal passato. E’ finita l’era fordista, che l’ha plasmata negli anni del boom trainato dalle grandi fabbriche. Oggi si richiedono strategie di qualità non più legate ai grandi numeri della crescita muscolare.
Non ha senso occupare nuovi spazi con altre colate di cemento quando esiste un patrimonio abitativo debordante: 5 mila appartamenti vuoti che coprono il fabbisogno per i prossimi 10-15 anni, perché gli indicatori socio-economici e demografici sono ormai orientati al contenimento.
Non è pensabile sprecare altro suolo quando c’è un’abbondanza impressionante di aree dismesse: scheletri di cemento, luoghi di rovi e di pantegane. La decisione di costruire il nuovo ospedale in via Montereale contiene un interessante abbozzo di idea di città, che si sviluppa attraverso la rigenerazione urbana.
Si articola in una strategia di rammendo dei profondi “sbreghi” che hanno deturpato i valori della storia. Su questo versante, Pordenone potrà giocare un ruolo di innovazione, che rappresenta una scommessa sul futuro.
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