Morto l’alpino reduce e scrittore Nilo Pes «Un vizio? Lo studio»

«Per invecchiare occorre tanta pazienza», era solito dire. Ancora poca, rispetto a quanta, accompagnata da una buona dose di tenacia e fortuna, ne aveva avuta per uscire vivo dalla seconda guerra mondiale. L’altra sera, all’ospedale di Pordenone, si è spento a 95 anni il maestro, bibliotecario e scrittore (oltre venti libri pubblicati) Nilo Pes, ufficiale alpino e reduce. Abitava a Vigonovo di Fontanafredda, dove domani verranno celebrati i funerali alle 15 e oggi recitato un rosario alle 20.
Furiere dei ragazzi di Aosta ’41. Nilo Pes, data di nascita 9 maggio 1921 («celebre non solo perché sono nato io, ma anche perché nel 1936 venne proclamato “festa dell’Impero”») era soprattutto alpino, presidente dell’associazione combattenti e reduci. «Ci stiamo avviando serenamente verso il porto d’arrivo, ma ci facciamo ancora compagnia. Cinque anni fa eravamo 5 mila, oggi meno di 600, in provincia», disse in un’intervista al Messaggero Veneto sei anni fa.
Prima con la Lettera 22, poi col pc e i moderni social network si mantenne in contatto col mondo. «Il computer è un mezzo grande. Non deve, però, sostituire la realtà, dalla quale non possiamo estraniarci. Non ho altri vizi. Passo il tempo con le ricerche, guardo gli archivi di Stato. Ho scoperto la libertà che ai miei tempi non c’era. Siamo stati allevati sentendo una sola campana. Non capivo che cosa fosse la democrazia perché non c’era confronto. Ho scoperto la libertà in campo di internamento. Dei miei battaglioni eravamo in 42. Ci chiesero se volevamo aderire alla Rsi: 39 fecero un passo avanti, in tre, tra cui io, no. Pensai: “Santo cielo, se posso rispondere no e scegliere, vuol dire che sono libero e posso godermi la libertà”».
La cartolina precetto arrivò quando, già diplomato maestro, frequentava l’ultimo anno di liceo scientifico a Vittorio Veneto. «Partii per Aosta nel febbraio 1941: quattro mesi di corso per allievi ufficiali, due come sergente a Cuneo e altri sei a Bassano. Sottotenente in Jugoslavia per diciotto mesi consecutivi fino all’8 settembre: la guerriglia fu atroce e ci logorò. Il 16 settembre 1943 a Cattaro mi trovavo ancora staccato alle salmerie del battaglione rimaste senza ufficiale. Quel giorno il mio sarebbe stato il plotone di testa. Potevo non esserci? Potevo lasciare soli i miei alpini? No. Infrangendo la più classica delle regole militari abbandonai il posto, roba da fucilazione, per andare a rischiare la pelle e raggiunsi il mio plotone già in fase di avvicinamento al forte».
Su quelle giornate scrisse un libro. «Potevo lasciare soli i miei alpini? Alpini “miei” da diciotto mesi? No. E corsi via. Lungo la mulattiera trovai il comandante di battaglione, il tenente colonnello Armando Farinacci (fratello del gerarca). Si sorprese nel vedermi – io non dovevo essere lì! – ma non mi rimandò indietro e questo nel linguaggio militare voleva dire che ratificava il mio rientro alla compagnia, quindi niente fucilazione. Ero regolarmente rientrato, ero al plotone di testa e Farinacci mi assegnò due uomini con un telefono da campo. Ora mi restava solo il rischio pelle. Dopo parecchie salve, centratissime, ecco l’ordine: attaccare. Quelle ore, tanto durò l’azione, furono maledettamente dure. La nostra non era una guerra “d’assalto”, una guerra in cui tutto si risolve tra ubriacature di scoppi, urla e corse, una guerra in cui non hai tempo di pensare e quindi neanche di aver paura. No, lì c’era il colpo singolo, poi un altro, c’eri tu che ti buttavi a terra, cercavi un riparo, rispondevi al fuoco, e c’erano i colpi successivi, ad personam, e tu eri bersaglio. Eccoli, i nostri benedetti artiglieri: si muovevano curvi sotto il peso delle bombe e delle varie parti del pezzo scaricate poco prima dai muli, troppo visibili, e portate a braccia. Scoppi devastanti dentro e, quasi subito, bandiera bianca fuori. Vittoria! Vittoria! Mi alzai, i “miei” alpini si alzarono e ci guardammo: salvi, tutti salvi! Ora la Storia dice che quella di Kobìla fu la prima vittoria di truppe italiane contro truppe tedesche dopo l’8 settembre 1943. Fu la prima vittoria e perciò ben degna di nota».
Nilo Pes venne internato in Germania, dove ricevette la cresima. Trentanove ufficiali del suo reggimento aderirono alla Rsi, lui no. «Mi vennero in mente le lacrime della mamma austriaca, quando Hitler, nel 1938, prese l’Austria. In un lager venni pesantemente invitato da un maggiore delle Ss a passare con l’esercito tedesco. No. E mi sentii libero». Trasferito in Polonia, la vigilia di Natale ricevette un pranzo straordinario: tre cipolle. Divorate e vomitate. Nel marzo 1944 ancora in Germania, rimpatriato dopo la Liberazione, il 2 agosto: «C’era tanto passato da smaltire». Nel 1951 venne richiamato a Tarvisio, per istruzione. «Bello quel mese. Lo ripeterei, a costo di tornare a quell’età».
Che cosa resta di una vita alpina? «Il servizio militare mi ha procurato amicizie che durano dopo 75 anni – disse Nilo Pes –. I ragazzi di Aosta ’41 erano 1.600, tra loro l’ex presidente dell’Ana Leonardo Caprioli: oggi siamo un’ottantina. Nella professione ho portato un po’ di alpinità: ai miei alpini non ho mai dato ordini, li ho convinti che quello che dicevo doveva essere accettato. Così per i ragazzi a scuola: li convincevo che studiare era per il loro bene».
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