Morì a 22 anni, l'appello della famiglia: vogliamo la verità

Lignano: la battaglia legale dei familiari di Gian Maria Soncini. La Procura ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio

LIGNANO. Aveva 22 anni Gian Maria Soncin quando la notte del 30 aprile 2017 pose fine alla propria vita nella pineta di Lignano.

Una morte sulla quale la Procura di Udine ha aperto un fascicolo per aiuto o istigazione al suicidio a carico di ignoti e sulla quale i genitori del ragazzo Claudio Soncin e Valdimara Zecchinel ora chiedono che sia fatta chiarezza e che vengano individuate eventuali responsabilità da parte di chi avrebbe potuto evitare la morte del figlio.

Lo fanno attraverso i legali Federica Tosel e Luigi Francesco Rossi, che nei giorni scorsi hanno presentato al giudice per le indagini preliminari Emanuele Lazzaro opposizione alla richiesta di archiviazione già depositata dal sostituto procuratore Annunziata Puglia.

Un ragazzo tranquillo e studioso Gian Maria Soncin, senza troppi grilli per la testa, risiedeva a San Vito al Tagliamento, ma trascorreva tutte le estati a Lignano, dove i genitori possiedono una gelateria. Si era innamorato di una ragazza, ma quella che sperava potesse diventare una storia importante si era trasformata in una fonte di tristezza e di sentimenti negativi per lui.

Proprio la notte della sua morte, dopo aver visto quella ragazza in discoteca assieme a un altro aveva litigato con lei. Aveva bevuto parecchio e poi si era messo al volante della propria auto per dirigersi verso casa. Ma durante il tragitto aveva perso il controllo della vettura ed era finito contro un palo, verso le 4 del mattino. Alle 4.27 il suo ultimo messaggio inviato proprio alla ragazza: «Ti ho tanto amato» diceva. Poi più nulla.

Le forze dell’ordine erano arrivate alle 5.30 sul luogo dell’incidente e avevano recuperato la sua auto, ma di Gian Maria non c’era traccia. La scoperta del suo corpo privo di vita nella pineta poco distante era arrivata nel pomeriggio del giorno dopo quando un passante lo aveva notato.

Un epilogo difficile da accettare per i genitori: «Quello che è successo a nostro figlio non deve capitare a nessun altro ragazzo – spiegano – vogliamo che si accerti se vi siano responsabilità sia in relazione a una situazione sentimentale che lo ha prostrato, sia sulla mancata attivazione dei soccorsi» è la loro richiesta.

Da qui una serie di interrogativi cui la famiglia chiede sia fornita risposta: l’atto è stato istigato o agevolato da qualcuno? Si poteva e quindi si doveva evitare?

A farsi interpreti delle loro istanze sono i legali: «Il telefono del povero Gian Maria è stato sequestrato: purtroppo nessun atto investigativo è stato espletato su quell’apparecchio, se gli investigatori avessero analizzato chat e messaggi avrebbero scoperto la natura di quella relazione» evidenziano. Ed è sulla base dell’analisi di quelle conversazioni che il celebre psichiatra torinese Alessandro Meluzzi, interpellato dalla famiglia, ha steso la propria relazione. «Ritengo che le condotte comportamentali, cognitive emozionali e affettive poste in atto nel corso di tutti i mesi della relazione e segnatamente nell’ultimissima fase, configurino tutte le condizioni di una vera e propria istigazione al suicidio».

I legali sollevano anche dubbi sulla dinamica dei soccorsi: «Almeno sette persone si sono fermate dopo l’incidente in cui è rimasto coinvolto Gian Mattia – segnalano Tosel e Rossi –. Tutti, chi prima e chi dopo, se ne sono andati lasciandolo solo.

Eppure, sia medico legale che ha effettuato l’autopsia sul corpo del ragazzo, sia il nostro consulente hanno evidenziato l’esistenza di un’emorragia. Infine va evidenziato come, a causa della mancanza di mezzi e di personale, solo alle 5.30 le forze dell’ordine giunsero sul luogo dell’incidente e a quel punto, nessuno si preoccupò di controllare la zona, i documenti dell’auto o di chiamare il proprietario. Circostanze che chiediamo vengano approfondite».

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