Majano, il primo funerale e una sola certezza: ricostruiremo

Le prime esequie della zona terremotata si svolsero il 9 maggio. Nonostante il dolore durante la cerimonia fu grande la compostezza delle persone e nessuna lacrima venne versata

MAJANO. Nella zona terremotata il primo funerale fu celebrato a Majano. Il 9 maggio il prefetto aveva incaricato i militari della divisione Mantova di effettuare il trasporto delle prime 73 salme. Troppe anche per l’esercito che aveva solo 11 mezzi, ognuno dei quali poteva trasportarne tre.

Fu Alessandro Schiratti, all’epoca assessore all’Artigianato, a convincere che il comandante che non c’era più tempo, che nella palestra si sentiva solo l’odore del disinfettante.

Il secondo venne organizzato qualche giorno dopo, le vittime erano 37 alle quali si sono aggiunge le altre 20. «Quelle che era stato recuperate per ultime» aggiunge Schiratti facendo notare che molta gente si era rifugiata in cantina e che, in quei casi, fu necessario demolire quel che restava delle abitazioni per recuperare i corpi.

Il primo funerale venne ricordato per la compostezza della gente che nonostante il dolore non riusciva a versare lacrime. «A Majano - scriveva Francesco Durante sulle pagine del Messaggero Veneto - ogni minuto che passa porta con sé un senso acre di distruzione e di morte: c’è una tensione indecifrabile, si teme che tutto questo possa portare a uno sconforto generale. Se i nervi di questa gente così forte, così generosa dovessero d’improvviso crollare, non si potrebbe ipotizzare un’immagine di quel che succederebbe».

La folla si dispose ai lati del cimitero. Nei loro occhi la disperazione muta che è propria dei friulani. Le autorità, gli amici, i parenti, guardavano le bare in fila - «non finiscono mai» disse una donna - vicino alla fossa di 20 metri per 20.

«Ricostruiremo tutto, pas nestri fameis, pal nestri Friul, per tutto il mondo» assicurava don Giuseppe Ribis trattenendo l’emozione, nell’omelia sperando di rassicurare i terremotati che da lì a poco sarebbero andati incontro all’estate in tenda e all’esodo con il timore di non poter tornare nei loro luoghi.

Ma alla fine della cerimonia la tensione venne meno e l’emozione ebbe il sopravvento. Non fu più possibile trattenere l’angoscia. «Le madri si lasciano andare - scrisse sempre Durante - , c’è chi grida, disperata, sulle tavole dure delle bare.

Non sono isterismi, è un pianto di angoscia che finalmente trova uno sfogo, dopo le notti nelle tendopoli, quando non pareva 35vero che tante persone fossero morte, perché erano lì a due passi, nella palestra-obitorio. Il parroco infatti aveva dato appuntamento per il giorno dopo.

Majano piange ancora i suoi morti. Lo fa da quarant’anni nel luogo dove sorgevano i due condomini crollati, trasformato in un monumento pubblico. Lo stesso vale per la targa affissa nella palestra, quei 130 nomi restano impressi nella memoria di troppe persone

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