Madri, mogli, figlie: e Jole Zanetti racconta l’estrema infelicità

Chi fa della lettura una pratica diversiva o consolatoria non si accosti ai Racconti sgradevoli di Jole Zanetti (Garzanti). Chi invece crede, come scrive Luca Doninelli nella postfazione al libro, che i mezzi della vera letteratura sono «sincerità, onestà e, quando necessario, brutalità», si disponga a esporsi a uno spettro di “sgradevolezze” lucidissime, algide, lancinanti e – sì – brutali. Senza compiacimenti equivoci, va subito detto (tanto lontane, queste ventuno storie di donne, dalla cattiveria e dalla provocazione gratuita quanto dai patetismi edificanti del facile buonismo) e senza blandizie o astuzie stilistiche: puro squallore, pura follia, puro dolore e gesti estremi vanno narrati proprio così, con stile asciutto, disadorno, affilato.
I ventuno brevi o brevissimi racconti, in prima o in terza persona, ci presentano una galleria di ritratti di donne diversamente infelici: sole o abbandonate, schiave dei familiari o di se stesse, frustrate o esasperate, rassegnate o finalmente ribelli, tutte in cerca di liberazione, anche ricorrendo all’eutanasia o all’omicidio, o di assoluta libertà: e a essa la sola via è il suicidio. «La crudeltà dell’esistenza era tremenda», riconosce una delle protagoniste, riassumendo le esperienze di tutte le altre. Lasciando al lettore di conoscerle e soffrirle, ci preme sottolineare l’uso efficacissimo che l’autrice fa del suo minimalismo, a volte rivelando impietosamente, ma più spesso lasciando intuire o sintetizzando in una frase icastica (specialmente in chiusura) le circostanze esterne e i grovigli interiori di cui madri, mogli, figlie sono vittime, per lo più da parte degli uomini: una prospettiva tutta femminile e in certa, contenuta misura femminista. Almeno un esempio della scrittura di Jole Zanetti: ecco come uno stato d’animo viene proiettato sul paesaggio: «L’equilibrio della natura si poteva spezzare senza ragione e il paesaggio incontaminato si trasformava in ostilità e ferocia. La bellezza era disperazione».
Si legge nel risvolto di copertina che queste storie lasciano «una sensazione di pietà per gli altri e per noi stessi», che offrono «un’occasione di purificazione». Avrebbero, insomma, un effetto catartico. Ha scritto Kafka che un libro deve essere come una piccozza capace di rompere il mare ghiacciato che è dentro di noi. Se i Racconti sgradevoli ne siano capaci, e che questo si propongano, giudichi il lettore. La nostra sensazione è che essi, ancor più che pietà, suscitino compassione nel senso di dolorosa identificazione: ci si riconosce in essi come negli specchi in cui le protagoniste scoprono riflessa la propria immagine mostruosa. La loro potenza sta proprio nella perfetta ostensione del male che, come il sacro, è fascinans et tremendum. Questo alla lettura; si consideri però che Jole Zanetti si è prodigata per molti anni come volontaria nell’assistenza sanitaria in Africa, ed ecco ricomparire le motivazioni e i valori che i Racconti sgradevoli non esibiscono.
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