L'ultima cena fu il passaggio tra vecchia e nuova alleanza
Un'analisi storica e religiosa delle differenze tra la Pasqua ebraica e quella cristiana
Nel Vangelo i pasti hanno un significato salvifico ed escatologico
Quando Gesù mangia con gli ultimi mostra di rifiutare l'antico sistema
Motivi di diversità e di continuità fra la tradizione e i nuovi riti
Il cruciale passaggio dalla legge scritta a quella che ognuno porta nel cuore
Nel Vangelo i pasti hanno un significato salvifico ed escatologico
Quando Gesù mangia con gli ultimi mostra di rifiutare l'antico sistema
Motivi di diversità e di continuità fra la tradizione e i nuovi riti
Il cruciale passaggio dalla legge scritta a quella che ognuno porta nel cuore
Non propriamente ultima, la cena dell'istituzione eucaristica è un anello della lunga catena di pasti che Gesù consuma coi suoi discepoli, sia prima della sua morte che dopo la sua resurrezione. I banchetti di Gesù hanno un forte significato religioso, salvifico ed escatologico; lo stesso Regno di Dio è prefigurato come un grande convito, secondo la tradizione profetica e sapienziale. Ma va rilevato che i pasti di Gesù hanno quasi sempre connotazioni polemiche: non osservanza delle norme rituali e religiose cui i giudei erano tenuti; condivisione del cibo con miscredenti, peccatori e altri indesiderabili; mancato rispetto dei giorni di digiuno. Il fatto che Gesù sia tacciato di essere un mangione e un beone e lo scandalo sollevato dal suo comportamento danno la misura del carattere sacro, teologico addirittura, che il pasto rivestiva nella società del suo tempo. Scrive José Maria Castillo nel suo trattato di teologia sacramentale Simboli di libertà: «È chiaro quindi che Gesù e la sua comunità rompono i legami con la teologia stabilita da quel sistema religioso, non dando più al mangiare quel carattere rituale attribuitogli dai pii giudei del tempo. Gesù inoltre consuma i suoi pasti in maniera tale che essi rivestono un senso veramente rivoluzionario. La ragione è molto semplice; nella mentalità giudaica sedersi insieme a tavola significava farsi solidali con i commensali.
Di conseguenza, quando Gesù mangia insieme a peccatori e miscredenti, ossia con persone rifiutate in maniera radicale dal sistema religioso, dichiara implicitamente che anch'egli rifiuta quel sistema. Per Gesù l'importante non è l'osservanza dei rituali religiosi, ma la solidarietà nei confronti di coloro che proprio la religione rende oggetto di disprezzo. Ma la condotta di Gesù in tale materia si spinge più in là. Il vangelo di Luca ci ha conservato delle parole attribuite allo stesso Gesù, che riflettono anche il pensiero della comunità primitiva: "Quando dai un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti". Identico insegnamento sarà ripetuto poco dopo, nella parabola del grande convito. Il vero senso teologico del condividere un pasto, secondo l'insegnamento evangelico, sta nel fatto che si tratta di condividere la vita e di farsi solidali con i poveri e derelitti di questo mondo. Questo fatto è direttamente in relazione con il senso che deve avere l'eucaristia per i credenti. Se ne comprende subito la ragione, dal momento che oggi è fuori discussione che la narrazione dell'istituzione dell'eucarestia è costruita in base a un espresso riferimento all'avvenimento della pasqua ebraica. Sappiamo d'altra parte che nella tradizione giudaica della cena pasquale si dava risalto all'idea della solidarietà con i poveri e i diseredati».
Prima di focalizzare l'ultima cena come cena pasquale, ricordo come la celebrazione della pasqua ebraica scandisca la vita di Gesù segnandone dei momenti forti. Luca narra come Gesù dodicenne compia il pellegrinaggio pasquale a Gerusalemme con Maria e Giuseppe, e nel tempio Gesù rivela il suo destino, incompreso dai genitori che l'hanno cercato angosciati per i tre giorni che alludono alla sua ultima pasqua. Giovanni ricorda almeno tre pasque della vita pubblica di Gesù: quella in cui opera la purificazione del tempio e annuncia la costituzione del suo corpo stesso come tempio nuovo; quella in cui avviene il "segno" della moltiplicazione dei pani e l'autorivelazione di Gesù come «pane vivo, disceso dal cielo» e l'ultima, connessa alla resurrezione di Lazzaro, a seguito della quale il sinedrio decreta la morte di Gesù, al gesto profetico dell'unzione di Gesù con profumo prezioso da parte di Maria e all'ingresso messianico a Gerusalemme culminante nell'annuncio della salvezza universale: «E io, quando sarò innalzato dalla terra, trarrò tutti a me». Secondo l'attesa giudaica, il messia doveva manifestarsi a Gerusalemme in una notte di pasqua, ed è nella città santa che Gesù, nella notte tra il 14 e il 15 di Nisan dell'anno 30, «mangia la pasqua» con gli amici secondo il precetto e il rituale giudaico.
La parola pesah, in ebraico, deriva dal verbo pasah, che significa zoppicare, saltare: il riferimento originario dunque è alle danze (o al saltellare degli agnellini) di un'antichissima festa pastorale, durante la quale i pastori nomadi, all'inizio della trasmigrazione primaverile, sacrificavano un agnello col cui sangue venivano cosparsi i sostegni della tenda a scopo apotropaico e venivano segnati i partecipanti al banchetto comune: il sangue è suggello della reciproca appartenenza dei membri della comunità. A questa antica pesah fu poi aggregata la festa delle massot (azzimi), una festa agricola cananea, celebrata all'inizio della mietitura dell'orzo, che durava una settimana e iniziava con l'eliminazione del vecchio lievito. Con l'esperienza dell'esodo pesah assume un nuovo significato: diventa segno e rito memoriale del passaggio del Signore e del passaggio del popolo alla libertà. Più precisamente, il verbo pasah nell'accezione di "passare oltre" allude al fatto che il Signore, mentre stermina i primogeniti egiziani, risparmia gli ebrei "passando oltre" le loro case segnate col sangue.
Anche la festa delle massot fu reinterpretata in senso storico e salvifico, e con la riforma di Giosia la pasqua divenne una delle tre feste di pellegrinaggio a Gerusalemme col carattere di zikkaron, ovvero di memoriale della liberazione dall'Egitto «non nel senso di un anniversario, in cui si ricorda un fatto del passato, ma in quanto è un'esperienza che si rivive ogni volta che la si evoca nei simboli del rito», scrive Rinaldo Fabris, il quale mostra come la celebrazione della pasqua scandisca anche i momenti decisivi della storia biblica. Memoriale, dunque, attualizzante della liberazione passata nella speranza della futura liberazione messianica. Ai tempi di Gesù, il rapido pasto prescritto da Esodo, consumato coi fianchi cinti, con il bastone in mano e i sandali ai piedi, forse nemmeno seduti, si era trasformato in un convito rituale, il seder di pesah. Il 14 del mese di Nisan (tra metà marzo e metà aprile, secondo il nostro calendario), dopo che nelle prime ore del giorno era stato eliminato dalla casa ogni minimo frammento di pane fermentato, nel pomeriggio si immolava l'agnello nell'atrio del tempio (secondo Giuseppe Flavio, nel pomeriggio pasquale del 65 d.C. le vittime scannate furono 255.600). Riportato in famiglia, l'agnello veniva arrostito per essere consumato durante il banchetto, che cominciava dopo il tramonto e si prolungava sino a mezzanotte e oltre. Vi partecipavano da dieci a venti persone, sistemate su bassi divani, come si conviene a persone libere. «Era di prescrizione che vi circolassero almeno quattro coppe di vino rituali... non risulta con sicurezza se tutti i commensali bevessero a una stessa coppa, d'ampie dimensioni, ovvero ciascuno avesse la propria. Si cominciava mescendo la prima coppa e recitando una preghiera, con cui si benediceva in primo luogo la giornata festiva e poi il vino (o viceversa).
Quindi si recavano in tavola, insieme con il pane azimo, erbe agresti e una salsa speciale (haroset) nella quale si intingevano le erbe; dopo di ciò, si recava l'agnello arrostito. Si mesceva allora la seconda coppa, e il capo famiglia, di solito dopo una domanda convenzionale del figlio, faceva un piccolo discorso per spiegare il significato della festa, ricordando i benefizi del Dio Jahvè verso la prediletta nazione e la liberazione di questa dall'Egitto. Si consumava quindi l'agnello arrostito insieme con l'erbe agresti, mentre circolava la seconda coppa. Si passava poi a recitare la prima parte dell'Hallel; dopo di che si recitava una benedizione con cui cominciava un vero banchetto, preceduto dalla usuale lavanda di mani. Si mesceva quindi la terza coppa, e si pronunziava una preghiera di ringraziamento; poi si recitava la seconda parte dell'Hallel, e infine si mesceva la quarta coppa. Questo è il rito della Pasqua quale è descritto, pur con talune imprecisioni, dalla tradizione rabbinica: si può ritenere che esso rispecchi, almeno nelle linee generali, l'uso seguito ai tempi di Gesù dalla corrente dei farisei, e perciò anche dalla gran maggioranza del popolo che le andava appresso» (Ricciotti). Nessuno più mette in discussione che l'ultima cena di Gesù fosse il seder pasquale ebraico anche se tra i sinottici e Giovanni c'è discordanza cronologica (secondo i primi, Gesù avrebbe celebrato la cena dell'agnello pasquale la vigilia di Pasqua, secondo Giovanni la sera prima; dunque secondo i sinottici Gesù sarebbe morto il giorno di Pasqua, secondo Giovanni nella parasceve della Pasqua, prima del banchetto rituale e, significativamente, nelle ore in cui si sacrificavano gli agnelli nel tempio). L'istituzione dell'eucaristia "dopo la cena" coincide verosimilmente con il rituale della terza coppa e con la distribuzione dell'afiqoman, il pezzo di azzima mangiato alla fine del pasto.
Possiamo guardare ora alla cena di Gesù dal punto di vista ebraico, anzi di un ebreo particolare, Schalom Ben-Chorin, autore del saggio Fratello Gesù, alla luce delle sue belle riflessioni al capitolo intitolato La notte del seder a Gerusalemme, soprattutto, in tema di continuità, quelle relative alla ripresa, da parte di Gesù, del tema del zikkaron; e, in tema di radicale novità, la suggestiva ipotesi che il calice eucaristico sia da rapportare per negazione alla quarta coppa del seder, detta "coppa dell'ira", bevendo la quale si leggeva il versetto «Riversa la tua ira sopra i popoli che non ti conoscono e sopra i regni che non invocano il tuo nome». Ben diverse le parole di Gesù: «Questo è il sangue della nuova alleanza, che viene versato per molti per la remissione dei peccati»; quel "per molti", da intendersi "per tutti", all'ira di Dio sostituisce la misericordia redentrice. O ancora, tra le deviazioni dal rituale, la lavanda dei piedi narrata da Giovanni, che ribalta la lavanda delle mani dell'inizio del seder: mentre al padre di famiglia celebrante le mani vengono lavate dagli altri, Gesù lava i piedi ai suoi discepoli. Una posizione coraggiosa, quella di Ben-Chorin, poiché mentre da parte cristiana fin da Paolo viene sancito il nesso tra la festa ebraica e la pasqua cristiana, il giudaismo, sin dalla tarda antichità e durante il medioevo si è adoperato per tenerle ben distinte e negarne la parentela prossima.
Ma dopo aver insistito sugli elementi di continuità, per non concludere dando l'impressione di aver inteso riduttivamente la pasqua cristiana, tra le molte distinzioni possibili e necessarie mi soffermo su quella sottolineata da Gesù stesso. Sia i sinottici che Paolo attribuiscono a Gesù l'uso del termine diatheke, alleanza, e Luca e Paolo precisano: kaine diatheke, nuova alleanza. Qual è questa nuova alleanza, in cosa consiste la sua novità? Ce lo spiega l'autore della Lettera agli Ebrei citando testualmente il testo profetico di Geremia: «Ecco verranno giorni, dice il Signore, nei quali con la casa d'Israele e con la casa di Giuda io concluderò un'alleanza nuova. Non come l'alleanza che ho conclusa con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dal paese d'Egitto, una alleanza che essi hanno violato, benché io fossi il loro Signore. Parola del Signore. Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa di Israele dopo quei giorni, dice il Signore: Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore. Allora sarò io il loro Dio ed essi il mio popolo. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: "Riconoscete il Signore", perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato». Ecco il passaggio definitivo cui alludono le parole pronunciate da Cristo sul calice dell'ultima cena: il passaggio dalla legge scritta, esterna all'uomo, a quella che ciascun uomo porta scritta nel cuore, che nel linguaggio biblico è il luogo dell'attività intellettuale, volitiva e affettiva. Anzi neppure più legge, ma esperienza profonda del perdono e dell'amore di Dio. La Pasqua di Cristo è il passaggio dal dovere della religione alla libertà della fede.
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