Lo sport piange il prof Silvano Pravisano giocatore di serie A e maestro di calcio

Luana de Francisco
«Sono andato in trasferta per la mia ultima e decisiva partita. Vi porto tutti nel mio cuore». Silvano Pravisano lo aveva scritto qualche tempo fa, quando le forze avevano cominciato a venir meno e i giorni a trascorrere più faticosamente. Lo aveva fatto pensando ai suoi cari, per lasciar loro un messaggio che li aiutasse a rendere più lieve il distacco. Ieri, all’età di 95 anni, vissuti sempre e fino all’ultimo con la tempra dello sportivo, l’ora di quell’estrema trasferta è arrivata: il “professore dei mister”, come tutti lo chiamavano, si è congedato dal mondo dal letto dell’azienda per i servizi alla persona “La Quiete”, dove da un paio d’anni si trovava, circondato dall’amore della moglie Lorenzina Menazzi e dei figli Marco, agronomo, e Viviana, bancaria.
Calciatore di squadre di serie A e B, allenatore, insegnante di educazione fisica e geometra, oltre che marito, padre e nonno. Nel mettere insieme i pezzi della vita di Silvano Pravisano, capisci che a fare la differenza è il “come”: il modo in cui ha affrontato ogni sfida e la lezione che ne è derivata. «Il calcio può essere inteso alla stregua di un’arte – diceva –, per la stessa libertà d’azione che si ha nel giocarlo e per le stesse emozioni che si possono provare nel vederlo giocare bene, con fantasia e personalità, mettendo da parte, talvolta, gli schemi del mister». Eppure, è proprio di quella sua sapienza tecnica, trasmessa con infaticabile passione sui campi di calcio così come nelle palestre delle scuole, che generazioni di giovani hanno saputo e voluto fare tesoro.
Una preparazione, quella di Pravisano, maturata negli anni della gioventù, quando a tirare il pallone ai più alti livelli era proprio lui: nell’Udinese della serie B, dal 1942 al ’49, per un totale di 37 reti e il titolo di sesto miglior realizzatore; nel Legnano per le due stagioni successive e con la soddisfazione di festeggiare la promozione in A; nel Genoa, dal ’51 al ’56, con gli ultimi tre campionati di nuovo in A; nel Parma della B, dal ’56 al ’58; e anche nel Torino, con l’indimenticabile partecipazione nel ’49 alla Coppa Latina in Spagna.
Poi, conclusa la carriera agonistica, è cominciata quella non meno luminosa di allenatore, già a partire dal 1959, con la Tisana, seguita dalla Maianese, l’Esperia di Udine, la Sangiorgina di San Giorgio di Nogaro, il ritorno all’Udinese, alla guida degli allievi regionali dal 1973 al ’78, di nuovo la Tisana e, dal 1979 al 2006, la lunga avventura con la Sangiorgina di Udine. Infine, dal 2007 al 2010, la Pasianese. Un firmamento colmo di successi e umanità, lungo una vita intera, intervallato da innumerevoli riconoscimenti - dalla “Panchina verde”, nel 1981, al “Premio Bearzot”, nel 2012, e interrotto ben oltre gli ottant’anni. In mezzo, anche l’orgoglio di portare l’Iti “Malignani” alla conquista del titolo di campione mondiale per istituti scolastici, nel 1981, in Svezia, e la presidenza regionale dell’Associazione italiana allenatori calcio, dal 1982 all’88.
Ma a parlare più di qualsiasi medagliere, per quanto lungo possa essere, sono le lacrime con cui gli amici, ora che non c’è più, non possono fare altro che accarezzarne il ricordo. «È stato una pietra miliare, un punto di riferimento per noi tutti, inarrivabile e immenso – dice Giovanni Borzì, vicepresidente dell’Aiac –. La sua parola d’ordine era il “passettino” di preparazione: un movimento delle gambe molto rapido, per insegnare a stare sempre sul chi va là. Per me, che ho condiviso con lui dieci anni di allenamento, è stato tutto: mentore e padre putativo». E a dirsi orgoglioso di averlo avuto nella Sangiorgina, che anche ora che ha 81 anni continua a presiedere, è Silvano Buttazzi. «Un uomo dalle capacità superiori – lo definisce –: poche parole e tanto lavoro. Non per niente, lo chiamavano tutti “il professore” e mi è stato invidiato da tutte le società. Il nostro momento di bagliore, lo dobbiamo a lui: maestro di calcio e di vita».
Una valanga di ricordi, come quelli srotolati da Maurizio Manente, titolare dell’omonimo negozio di sport di via Grazzano e figlio di Sergio, gloria della Juventus. «Fui suo allievo quando all’Udinese c’era il Nucleo addestramento giovani calciatori – dice – e, pensando a quanto oggi ci si lamenti della scarsa attenzione data ai fondamentali, mi ritengo fortunato: furono la prima cosa che ci insegnò. Non era come tutti gli altri: le sue erano tecniche all’avanguardia. Un precursore. Come quando ci allenava con il pallone da rugby, per abituarci a essere reattivi».
Impossibile immaginare qualcosa di diverso anche a scuola, dall’Itg “Marinoni” al liceo scientifico “Marinelli”, allora. «Abbiamo lavorato insieme per alcuni anni e l’ho trovato una persona fuori dal comune – ricorda il collega di educazione fisica Giorgio Dannisi –: esprimeva ciò che voleva trasmettere con la propria fisicità». E questa «empatia», legata alla sua «integrità» sono stati il segreto per rimanere se stesso, «dinamico dentro e fuori, ben oltre la pensione». —
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