«La vera piazza della Motta? Ve la racconto io che c’ero»

PORDENONE. Idee più o meno simpatiche e originali quelle lanciate negli ultimi mesi per riqualificare piazza della Motta, piazza del Castello, piazza dei Grani. Alberi, fontane, “nobile interrompimento”, concerti, mercato: ma qualcuno ha interpellato «quei de la piasa detti anche i sarlatani» per una chiacchierata su ricordi, testimonianze e informazioni di prima mano sul luogo che si vorrebbe riportare agli antichi splendori? Ascoltando i loro racconti riemergono simpatici aneddoti. Ne respira l’aria sin da bambina, ad esempio, Maria Pia Valerio.
«La piazza – premette – un tempo era aperta solo su via della Mota, racchiusa ai lati dall’ex convento, dal basso fabbricato con l’arco nobile, dal palazzo dell’ex biblioteca, dai più recenti fabbricati di fondo contigui all’ingresso del carcere e dell’Umberto I. Insomma, era un luogo semplice, culla di saggezza, ma povera».
Il convento un tempo anche sala da ballo (denominato “salone Cojazzi”), magazzino di frutta e verdura, abitazione; il “nobile interrompimento” porta daziale, «con la sua buia scaletta in legno»; il monte dei pegni «con le spartane abitazioni e i carretti fuori per il carbone da riscaldare»; il duecentesco castello «voluto dal vescovo di Salisburgo Filippo di Carinzia e Carniola, con la sua complicata storia da luogo di pena ad abitazione per i pordenonesi poveri, uffici erariali e comunali e di nuovo carcere»; la casa per gli anziani «con la cucina economica per i vecchi derelitti».
Dove esisteva la spianata degli orti coltivati dai frati, ai piedi della mota del Castello, «una piattaforma di cemento con la sua rara copertura ricamata. Vi si preparavano feste popolari, spettacoli di marionette, giochi per bambini che sempre hanno animato la piazza: la scaja, il campo, i tappi, il cibecus». In quella piazza rialzata e priva di alberi, dove si accedeva da tre scalini, cinta da pilastri, «si vendevano le granaglie. Nel dopoguerra, di sera, i residenti ed altri, seduti sulla piattaforma riavevano i loro spazi. Alcuni suonavano, altri ballavano».
Piazza della Motta era pedonale. Attorno alla pedana c’era «un importante percorso veicolare per i servizi alla casa Umberto». Sino a qui i ricordi.
Ora una riflessione. «I progettisti – si chiede Mariapia Valerio – avranno la responsabilità morale e civile di non manomettere ulteriormente il tessuto connettivo della città. Affacciarsi sulla soglia della memoria trasmessa da queste vecchie costruzioni, per tradirla o riportarla in vita? Poche persone conoscono bene piazza della Motta e dintorni, vie e vicoli. Pochi sanno che cosa c’è sotto la piazza, ovvero una serie di cunicoli, vie di fuga per i frati del convento, uno dei quali peraltro è stato ritrovato in un’abitazione nelle vicinanze. Non si deve conservare tutto per forza – è la conclusione di Mariapia Valerio – ma se si vuole ricostruire o ristrutturare, lo si faccia con qualcosa dello stesso livello. Raccogliamo lo spirito di allora, evitando cose forzatamente moderne».
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