La storia di Corrado, in cella per errore e nemmeno risarcito

Dopo il danno la beffa, per Di Giovanni, incarcerato per 14 mesi e poi assolto. Lo Stato non paga, ricorso in Cassazione

PORDENONE. Dopo il danno, la beffa. Corrado Di Giovanni, 53 anni, rappresentante di vernici di Rivarotta di Pasiano, si è visto respingere dalla Corte d’appello di Venezia la richiesta di indennizzo per i 14 mesi di carcere patiti a causa di un errore giudiziario (sancito da due assoluzioni consecutive in primo e secondo grado).

Il 53enne pasianese era finito in cella il 23 marzo del 2012. Era stato accusato di essere la talpa di una banda sospettata di una serie di rapine nelle ville di imprenditori di Pramaggiore, Pasiano e Mansuè.

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Assistito dagli avvocati Michele Attanasio e Giampaolo Bevilacqua, Di Giovanni aveva fatto causa allo Stato chiedendo 516 mila euro, il massimo dell’indennizzo previsto in questi casi, puntando il dito contro le lacune dell’indagine.

Dopo il rigetto dell’istanza i legali di Di Giovanni sono pronti a ricorrere alla Corte di cassazione. I giudici veneziani sostengono, che una conversazione fra Corrado e il cugino (quest’ultimo era intercettato dagli inquirenti) sarebbe stata in codice e finalizzata a non meglio specificate attività illecite, non oggetto dell’inchiesta e del processo.

L’avvocato Attanasio, nel ricorso in Cassazione, contesta innanzitutto che quella telefonata avesse un carattere criptico e, anche qualora si volesse ritenere quella conversazione in codice, non potrebbe essere comunque ostativa al riconoscimento dell’equo indennizzo, perché le sezioni unite della Cassazione, nella sentenza 51779 del 2013, rilevano che le conversazioni criptiche debbano essere destinate ad occultare una attività illecita.

La giurisprudenza sostiene che anche nei casi di assoluzione l’indennizzo può essere rifiutato quando la persona assolta, con le sue condotte, anche colpose, abbia indotto in errore gli inquirenti.

Così, invece, non è nel caso di specie. Corrado Di Giovanni stava chiedendo al cugino la restituzione di un paio di jeans e non c’era nessun significato recondito in quella telefonata, puntualizza il suo legale.

Tra l’altro lo stesso giudice di primo grado aveva osservato nella sentenza che quella telefonata si prestava a plurime interpretazioni non idonee a fornire riscontri e dal suo contenuto non si potevano dedurre eventuali attività illecite. Il capobanda, sentito in aula, aveva detto di non conoscere affatto Corrado Di Giovanni, escludendo di fatto qualsiasi responsabilità del 53enne pasianese.

«Nell’ordinanza della Corte d’appello – conclude l’avvocato Attanasio – non solo non si spiegano le ragioni per le quali tale conversazione sarebbe criptica, ma i giudici non si sono neppure premurati di specificare quale sarebbe stato il presunto fine illecito della conversazione. Riteniamo che l’ordinanza possa essere impugnata in Cassazione».

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