“La primavera del lupo” libro “jazz” di Molesini

UDINE Ogni fuga è fascinazione. Sensi allertati al massimo. Protagonisti, inseguitori e osservatori eventuali (mettiamoci nel mucchio le ipotesi cinematografica e letteraria) attraversano un’infinità pazzesca di strati emozionali.
È Hitchcock in persona a consegnare ad Andrea Molesini il senso di una scelta: La primavera del lupo (Sellerio Editore), opera seconda del Premio Campiello 2011 con Non tutti i bastardi sono di Vienna, si gonfia di storia fulminante. Di quelle piene, rotonde, aggressive. «Leggo una frase del maestro che sostiene con forza tutto ciò che è inseguimento.
Roba simile già mi apparteneva e se stava chiusa buona e quieta da qualche parte. Avevo riempito una decina di fogli con un incipit intrigante, l’anno prima. A volte è bene lasciar macerare le idee. E mi ributto sopra con più foga e con la benedizione di Alfred». Il tutto ora è impacchettato nel tipico formato Sellerio, quello ideale da infilare in tasca. E te lo puoi leggere anche in tram. L’occasione di ascoltare un Molesini live è vicina: sabato 1°giugno, alle 18, alla libreria Ubik di via Mercatovecchio.
Una piccola isola nella laguna veneta. Marzo 1945. Persone costrette a darsela a gambe, per salvare la pellaccia. Due bimbi - Pietro e Dario («che sa i numeri»), una suora, due anziane sorelle, Maurizia e Ada. Solcano mari e schiacciano i rami dei boschi. I nazisti fanno sentire la puzza dell’alito sul collo.
«Sono passato dalla musica classica a quella jazz», spiega Molesini riferendosi alla sua mutata narrazione, pur non discostandosi per nulla da un livello di scrittura di raffinatissima specie.
Anzi, i due punti di vista scelti - il ragazzino Pietro e la religiosa - complica non poco la faccenda. «Dicevo jazz non casualmente. Il raccontare di Pietro è come l’improvvisazione di un sax, non conosce limiti di partitura, se ne va libero. E mi ha reso libero. Un bimbo non conosce il limite, lo oltrepassa, torna indietro; è un palleggio a volte politicamente non corretto. Definisce “porcospino” il tedescare dei seguaci di A-H (Adolf Hitler, ndr), un “scivolante ciabattare” lo slang americano e il disertore Karl, che accompagnerà la truppa disperata nel viaggio ignoto, diventa una “crosta di formaggio”».
A volte un non-sense che beffeggia il senso e, inevitabilmente, lo elogia. Non hai tempo di abituarti allo sgangherato lessico dell’infante - ma Molesini sa come rendere avvincente un tema di quinta elementare - che scivoli sulla poetica della donna, fluida e profonda.
A ogni sfoglio di pagina non sai con quale occhio e con quale cuore ti inoltrerai nel passo successivo. «Ho contemplato quattro immensità» - suggerisce lo scrittore veneziano. «L’amore, l’infanzia il linguaggio e la notte. E il Dio che non li aiuta e quello ebreo invisibile e dappertutto».
Chissà quale strategia usa Molesini. Sappiamo di una sua particolare cura del personaggio. Lo conosce da tempo, nulla gli sfugge. Carattere, vissuto, reazioni possibili. «Solitamente vado di getto per qualche pagina, spesso sono i miei “attori” a suggerirmi il cammino da intraprendere». Giungere freschi al finale, vi sorprenderà. Un premio Campiello ha un suo peso specifico.
Qualcosa sfuggirà, negli anni, qualcosa resterà. «In realtà tutto passa in fretta. Gli echi di un successo rimbalzano, poi si esauriscono. Le conoscenze no, ed è questa la ricchezza di un’esposizione. Non avrei mai conosciuto gente intrigante senza il Campiello in bacheca». E chissà quante ancora. Le traduzioni si affastellano. Del primo e già del secondo. «I francesi hanno appena acquistato i diritti de La primavera di lupo», confessa felice.
«Ad altri non so, per me è la soddisfazione in cima ai desideri. Più dei soldi, guardi».
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