Invasi dai cassonetti per indumenti usati: Caritas “accerchiata”

PORDENONE. L’invasione di cassonetti per la raccolta di indumenti avvenuta negli ultimi tempi anche in provincia di Pordenone, e in particolare nel capoluogo (ne sono stati contati 29, ma potrebbero essercene di più, posizionati su aree private, come quelle di distributori e ristoranti), può indurre in errore e far pensare che si tratti sempre di contenitori collocati dalla Karpos, cooperativa sociale che svolge questo servizio in stretto contatto con la Caritas diocesana.
Invece è necessario fare attenzione alle scritte che compaiono sui colorati cassonetti per capire a chi andranno gli indumenti raccolti e conferiti dai cittadini. A fare emergere una situazione che sta creando non pochi problemi è il caso del bambolotto il cui pianto è stato scambiato per quello di un bambino in un contenitore per abbigliamento usato ad Azzano Decimo.
Indicato in un primo tempo come uno di quelli legati alla Caritas, alla fine è emerso invece che quest’ultimo apparteneva a un’organizzazione diversa. «Siamo in un vero e proprio “mare magnum” di aziende e associazioni che appoggiano i progetti più disparati, una situazione che provoca non poche difficoltà», mette in evidenza Paola Marano, presidente della coop sociale Karpos di Porcia.
Si tratta di realtà provenienti da fuori provincia, in alcuni casi, ma non sempre, gestite da stranieri. L’unica onlus locale autorizzata a effettuare il servizio è proprio Karpos, frutto di un progetto nato 20 anni fa. Non potendo le Caritas diocesane attuare la raccolta in proprio non avendo la personalità giuridica richiesta per farlo, l’attività fu affidata alle coperative sociali. Promotore dell’iniziativa nella diocesi di Concordia-Pordenone don Livio Corazza, allora alla guida della Caritas.
«Il materiale da noi ritirato – spiega Marano – viene concentrato nel nostro impianto di prestoccaggio presente a Porcia, quindi viene ceduto a una ditta di Prato che si occupa dell’igienizzazione e della vendita dei prodotti recuperabili, che vengono separati da quelli che invece sono ormai irrimediabilmente deteriorati».
Nel tempo il valore dell’indumento usato fluttua sul mercato, come tutti i beni ci sono alti e bassi. In questo momento il settore risulta appetibile e per questo motivo si assiste a un’impennata di interesse da parte di associazioni o di privati, i quali approfittano anche di una legislazione poco chiara, che non facilita chi opera correttamente.
«L’indumento usato va considerato rifiuto – è il punto di vista della presidente di Karpos – e il proprietario unico ne diventa il Comune. Coloro che procedono alla sua raccolta devono essere autorizzati dai Comuni o dalle aziende municipalizzate, avere un impianto di stoccaggio, essere iscritti all’apposito albo. All’uscita dalla piazzola bisogna emettere un formulario di identificazione del rifiuto che ne certifica la tracciabilità, una specie di bolla vidimata. Noi a scadenze precise comunichiamo ai municipi la quantità di rifiuti raccolta, che rientra nei quantitativi della differenziata. Forniamo questo servizio gratuitamente, garantendo un risparmio di non poco conto agli enti locali. Nel contempo appoggiamo i progetti umanitari portati avanti da Caritas e ci avvaliamo, per effettuare i lavori, anche di persone svantaggiate».
Ma esiste un problema di interpretazione. Molti ritengono che l’indumento usato non vada considerato un rifiuto: ecco allora che vengono posizionati questi cassonetti da organizzazioni esterne alla realtà locale il cui contenuto non si sa poi che fine fa, provocando «danni ambientali, sottrazione di materiale al Comune di competenza e un aumento sconsiderato di contenitori posizionati sul territorio», oltre al fatto che le cooperative sociali lavorano meno e vedono ridursi la possibilità di dare occupazione a persone svantaggiate.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto