Insulti su Internet: da psiconano a buffone, ecco la deriva delle offese

La politica ha ancora un linguaggio oppure il linguaggio della politica è diventato quanto di peggio usa la società per esprimersi? “L’ars oratoria” resta sulle pagine dei libri di latino soppiantata “dall’ars insultoria”. “Vaffaday”, volgarità, insulti, parolacce, allusioni, tutto senza ritegno. Solo il pensiero di accostare certi termini ai vecchi politici sarebbe un abominio. Allora c’era una cosa fondamentale che adesso manca: il rispetto. Forse. Nessuna nostalgia, una constatazione.
Gli insulti volano da una parte e dall’altra; non ci sono alcuni più educati di altri. L’abbrutimento dialettico ha permeato tutto il mondo della politica fino a rendersi – diciamolo – insopportabile.
Avete notato? Se non siete di una certa parte l’altra si rivolge con i peggiori insulti. Difendete o criticate un politico? Militanti o avversari avranno per voi parole di spregio.
Di chi è la responsabilità? Lo sbarco dei social ha agevolato un imbarbarimento espressivo. Tutto – o quasi – è concesso. Se sui social posti qualcosa, chi è d’accordo clicca “mi piace” con una buona dose di superficialità: dagli altri puoi aspettarti ogni cosa.
Davvero è colpa dei social? Umberto Eco non ha avuto alcuna esitazione quando ha sentenziato: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli».
Certo sui social o in tivù siamo invasi. Nessuno si tira indietro. “Tuttologi”, “internettologi”, “opinionisti” tutti sullo stesso livello. Purtroppo.
Un’aggressività verbale che non avrebbe radicamento in una società sana e serena. È in atto la demolizione dell’avversario con ogni metodo, con ogni parola. Non importa se il confine non c’è più. Non si va di fioretto, ma di mannaia, dai talk-show del mattino ai salotti notturni, dalla radio ai dibattiti. Si parla l’uno sopra l’altro e chi più grida ha ragione; o, almeno, ritiene e pretende di averla.
Per farvi tornare alla mente – qualora la memoria zoppichi – il degrado raggiunto, gli esempi non mancano. “Psiconano”, “ebetino”, “pidioti”, “grullini”, storpiature del cognome quali “Berluskaz” e “Berluskaiser”, “Gargamella”, “Sei un poveraccio, vergognati”, “buffone”. Fino a Roberto Giachetti che modernizza il linguaggio della politica e sdogana l’espressione “faccia da culo”.
Macché, si dirà, è un modo di dire di uso comune. Certo, la novità apportata dal vicepresidente della Camera dei deputati è un’altra: ha utilizzato queste parole sul palco della direzione del Partito Democratico. L’espressione è patrimonio della collettività a tal punto che la si può utilizzare contro un membro di un altro schieramento, ma anche per colpire un collega di partito.
È lo stesso Giachetti che pochi mesi prima condannava il decadimento del linguaggio della politica, invitando gli avversari a moderare i termini.
E gli insulti – sempre sull’altezza – al forzista Renato Brunetta? Un punching ball.
Ed è il linguaggio della politica a giustificare il razzismo? Come dimenticare l’ex ministro Calderoli, salvato dall’aggravante razzista dai colleghi senatori dopo l’insulto al ministro Kyenge? “Scimmia”, “orango”.
Il linguaggio è il presupposto dell’azione. La alimenta, la giustifica, la spiega (o la ignora, fa lo stesso), la innesca e infine ne depotenzia le conseguenze. Sul lungo periodo dà forma al modo di pensare, a seconda delle situazioni, arricchendolo o impoverendolo.
La lingua italiana ci consentirebbe numerose e più raffinate possibilità di espressione, tuttavia abbiamo scelto di affidarci a categorie miserevoli, accompagnate da un vocabolario povero, essenziale, troppo spesso ignobile.
Un campionario? C’è davvero l’imbarazzo della scelta. Nessuno è innocente, poi mascherati dall’anonimato sui social si dà libero sfogo al peggio. Il vuoto della politica diventa clamoroso proprio quando si affrontano i problemi della “Rete”, tema divenuto centrale e che ha rivelato abissi d’ignoranza. Sono anni che si discute dell’“hate speech”, del linguaggio dell’odio che infesta la “Rete”. Finora la politica non ha prodotto alcun filtro, alcun provvedimento, e nessuna sanzione nei confronti di chi supera i confini della critica per entrare nell’area dell’offesa.
Se poi sono le donne protagoniste, l’insulto è un fiume in piena. È sul web che si combatte una delle battaglie contro il sessismo e per questo, in novembre, nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la presidente della Camera, Laura Boldrini, ha deciso di rendere pubblici i nomi di chi perseguita lei e altre donne sul web. Boldrini spiega così la sua denuncia mediatica: «Non dobbiamo essere noi donne a vergognarci perché subiamo quotidianamente violenze e insulti, ma gli individui squallidi che li scrivono». Boldrini ha portato alla ribalta il suo impegno contro l’istigazione all’odio sui social, un fenomeno che colpisce soprattutto le donne: secondo i dati dell’Osservatorio italiano sui diritti, le destinatarie principali di insulti sui social sono le donne, alle quali è rivolto il 63 per cento di tutti i contenuti offensivi.
E ricordate le lacrime della presidente Fvg, Debora Serracchiani? Sul web si son letti commenti irripetibili. “Patata bollente” poi è solo l’ultimo titolo dedicato alla sindaca di Roma, Virginia Raggi.
Tutto questo esige una riflessione sul modo in cui si è consumato in Italia un divorzio tra civiltà, cultura e politica.
Dal profano al sacro, tanto che domenica ne ha fatto cenno anche il Papa. «Non insultare gli altri. Noi siamo abituati a insultare – ha fatto notare Francesco all’Angelus –, è come dire “buongiorno”, ma è sulla stessa linea dell’uccisione.
Chi insulta il fratello lo uccide nel cuore. Per favore, non insultare». Quando ancora non c’erano i social già si diceva: «Ne uccide più la lingua che la spada». Adesso invece che le vie delle offese si sono moltiplicate è il caso di dire che ce n’è per ogni occasione. Signore e signori l’insulto è – vergognosamente – servito.
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