Il Tagliamento restituisce i resti del ponte ferroviario della Grande guerra

Sono visibili dal treno: si tratta dei monconi dei pali in legno. La storia del manufatto, testimone della Ritirata di Caporetto

SAN VITO. Il Tagliamento rivela i resti del vecchio ponte ferroviario in legno fatto brillare a fine ottobre di 101 anni fa durante la disfatta di Caporetto: sono visibili tra la ghiaia in un punto del greto in cui s’incontrano i territori di San Vito al Tagliamento e di Codroipo.

Per scorgerli, bisogna però transitare in treno sulla Udine-Venezia, con la visuale migliore alla sinistra di chi viaggia dal capoluogo friulano verso Casarsa. Si possono così vedere, insieme ad alcuni altri manufatti in cemento che, invece, risalgono al Secondo conflitto mondiale. Anche la loro è una storia, semisommersa dai sassi del grande fiume, che merita di essere raccontata.

Alla rapida occhiata alla quale si è costretti dal passaggio del treno, quello che resta dell’antico ponte parrebbero essere i monconi di alcuni pali di legno. «C’erano due ponti ferroviari, a causa del raddoppio della linea deciso quando l’Italia entrò in guerra nel 1915 – aiuta a ricostruire il professor valvasonese Paolo Strazzolini, socio dell’Associazione Tiliaventum di Udine –: a valle dell’attuale ponte ferroviario c’era proprio uno in legno che fu interessato dalla ritirata di Caporetto». Stretto tra esercito italiano in fuga e l’avanzata degli austro-tedeschi, il ponte fu fatto crollare dal lato sanvitese per rallentare l’incedere nemico.

Questo accadde alla fine di ottobre 1917, poi l’esercito imperiale riativò il ponte durante l’occupazione. Poco più di un anno dopo, il 3 novembre 1918, in seguito alla vittoriosa battaglia di Vittorio Veneto i soldati italiani tornarono sulla riva destra del fiume, per poi liberare l’intero Friuli dalle forze nemiche in rotta, le quali prima di fuggire danneggiarono a loro volta la struttura.

Con la successiva pace si aprì la stagione della ricostruzione. «Con la scelta di potenziare il ponte ferroviario in pietra più a monte – aggiunge Strazzolini – si utilizzò per l’ultima volta, durante i lavori, quello di legno per il passaggio dei treni. Alla conclusione del cantiere, nel 1929, si diede via libera alla popolazione locale per il recupero dei materiali che potevano essere ancora utili. Per questo, se troviamo ancora qualcosa di quel manufatto nel greto, possono essere soltanto i monconi di legno conficcati più in profondità nella ghiaia i quali non potevano essere facilmente estratti mentre la parte superiore fu portata via».

Ma lungo il corso del Novecento le vicende belliche, per questo tratto di fiume, non erano ancora finite. Dopo l’8 settembre 1943 e l’occupazione tedesca, la ferrovia diventò obiettivo dei bombardamenti degli Alleati, tanto che Casarsa, importante snodo ferroviario, pianse diversi morti e tra gli sfollati ci fu pure Pier Paolo Pasolini. L’esercito tedesco tentò di collegare le due rive con un guado ferroviario in cemento quasi a livello del letto, in quanto più facilmente riparabile rispetto al ponte.

«Ma non riuscirono mai a utilizzarlo – conclude Strazzolini – perché tra i bombardamenti e gli attacchi delle forze partigiane, si arrivò al 1945 e alla Liberazione». Alcuni resti di quell’opera, una delle ultime del Terzo Reich prima della sua dissoluzione, sono anch’esse visibili a viaggiando in treno.

Ma non sono gli unici reperti custoditi dal grande fiume: più a valle riappaiono sovente i resti dell’abitato di Rosa vecchia, distrutto da varie piene nel corso dei secoli e trasferito per questo tra 1600 e 1800, in seguito al mutamento del corso. Parte dei resti della chiesa di allora sono ora conservati nella stessa Rosa, nell’area festeggiamenti.

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto