Il partigiano 90enne scrive a Napolitano per chiedere la grazia

UDINE. «La mia potrebbe essere una delle tante storie legate alla Resistenza e alla Liberazione...». Comincia così la richiesta di grazia indirizzata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dal 90enne Arturo Nassig, assistito dall’avvocato Andrea Sandra. Partigiano dei Gap con il nome di battaglia “Carnera”, Nassig fu condannato nel 1954 dalla Corte d’assise di appello di Venezia a 20 anni e 3 mesi di reclusione per l’omicidio volontario di Pietro Zozzolotto, avvenuto nel 1944. Sentenza confermata dalla Cassazione nel 1955.
La latitanza in Jugoslavia e, nel 1963, l’indulto gli evitarono il carcere, ma quell’onta e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici hanno tristemente scandito la sua esistenza. Ora si mette nelle mani del capo dello Stato. Nelle sei pagine del carteggio diretto al Quirinale, c’è l’essenza di una vita. «La storia di un partigiano che, talvolta anche solo per un’incomprensibile casualità, – racconta Nassig – è sopravvissuto, a differenza di molti, ai momenti più difficili e disperati della guerra di Liberazione, ma che non ha potuto realizzare ed esprimere quei valori per i quali ha combattuto».
«In questi anni trascorsi a difendere la mia memoria e la memoria dei tanti compagni partigiani con i quali ho condiviso la Resistenza, nella speranza di poter dimostrare un giorno la mia innocenza nella morte di Pietro Zozzolotto, – si legge nella lettera – ho vissuto con grande sentimento i momenti più significativi della storia repubblicana del Paese per la cui libertà ho combattuto, senza poter esercitare il mio diritto di cittadino e di partecipazione alla vita politica e democratica. Ne ho sofferto e ne soffro molto. E anche il tentativo di ottenere giudizialmente la possibilità di sentirmi pienamente cittadino di questa Italia si è rivelato irrimediabilmente vano».
Il tribunale di sorveglianza di Trieste, il 20 aprile 1999, ha rigettato l’istanza di riabilitazione proposta da Nassig per non aver provveduto al risarcimento delle persone offese dal reato. «Un risarcimento cui certo non avrei avuto e mai avrò la possibilità di adempiere, stanti le ristrettezze economiche in cui io e mia moglie Noemi viviamo da sempre» chiarisce Nassig. Eppure la sua speranza in una completa riabilitazione non si è mai affievolita. A rinfocolarla, l’esistenza di alcune testimonianze, non ultima quella raccolta da Diego Lavaroni nel suo ultimo libro Storie della Resistenza lungo il confine orientale, che confermano come Zozzolotto, affidato a Nassig, fu effettivamente portato al Comando per essere processato e non venne ucciso nei boschi.
E poi c’erano l’amicizia con il figlio di Zozzolotto e le dichiarazioni dei partigiani che nel processo deposero a favore di Nassig. Ma nulla è bastato a far riaprire quel processo. Ora, con il supporto dell’avvocato Sandra, Nassig tenta una strada, l’ultima rimasta, per essere rimuovere quel dolore. «Le mie primavere sono quasi giunte al capolinea – dice – ma non desisto dall’idea che forse un giorno, anche dopo la mia morte, le prove della mia innocenza possano venire alla luce. Finchè sono in vita però non posso rinunciare al desiderio di poter ancora dare il mio sentito contributo alla democrazia della nostra Italia».
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