Il paradosso dell’Istat: sei occupato se impegnato un’ora ogni sette giorni

UDINE. È un’opinione, ma credo condivisibile, quella che spinge ad affermare che, se non conosci il fenomeno, se non hai contezza della realtà, non sei in grado di intervenire con efficacia. E questo deve essere vero anche se si parla di lavoro e politiche per il lavoro.
Una piccola premessa prima di riportare una definizione: “Occupati, comprendono le persone di 15 anni e più che nella settimana di riferimento: hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura; hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente; sono assenti dal lavoro (ad esempio, per ferie o malattia)”.
Così recita l’Istat. Che periodicamente riferisce circa il trend dell’occupazione. Il punto è che le prime due definizioni di “occupato” sono inadeguate.
Quante sono in Friuli Venezia Giulia e nel Paese le persone che, nella settimana di riferimento, hanno svolto almeno un’ora di lavoro retribuito con denaro o in natura? Magari in cambio di un pasto? Quanti sono coloro che hanno svolto un’ora di lavoro non retribuito nell’azienda di un familiare, quindi hanno fatto un favore al papà, allo zio o al cugino?
Ragionevolmente, possiamo considerare queste persone “occupate”? Se sul quesito lanciassimo un sondaggio, credo che la maggioranza dei rispondenti direbbe che no: chi lavora un’ora in una settimana, non è un occupato.
E, ancora, sappiamo quante “teste” sono interessate dai movimenti in entrata e in uscita dal mercato del lavoro? Fermo restando i contratti a tempo indeterminato, che continuiamo a considerare “stabili”, i contratti a termine che durata hanno? Un lavoratore quanti contratti a termine ha sottoscritto in un anno? Quanto durano questi contratti? Sei mesi, un mese, due settimane?
Ecco ciò che manca: una fotografia reale del mondo del lavoro di questa regione e di questo Paese. Una fotografia fedele che passa da una più affinata rilevazione e una più accurata attribuzione delle definizioni.
A partire da quella di “occupato”, perché allo stato anche una figlia, che di anni ne ha 14 e che se vuole la paghetta per tenere in ordine la camera e passare l’aspirapolvere, è una “occupata” (e anche illegale, vista l’età).
Qualche decennio fa, all’epoca degli uffici di collocamento (oggi Centri per l’impiego) era possibile periodicamente recuperare i dati sull’occupazione. Veniva fornito il numero delle persone iscritte al collocamento, e quindi disoccupate, quello di coloro che erano stati assunti nel periodo, e quello di coloro che erano stati licenziati.
Addirittura alle aziende che ricercavano personale, venivano forniti nome, cognome e numero di telefono dei disoccupati in cerca di impiego. Oggi, nell’era dei super computer, questi dati non sono più disponibili (ovviamente nemmeno nome e cognome di chi cerca lavoro perché la privacy, si sa, prevale).
C’è qualche difficoltà anche a ritenere affidabili le percentuali della disoccupazione giovanile, perché non è chiaro se nelle rilevazioni entrano o meno tutti coloro che, dai 15 anni in poi, hanno svolto qualche attività estiva tra un anno scolastico e l’altro, o coloro che, pur frequentando l’università, si rendono disponibili per attività stagionali.
In sostanza, le stime non bastano e le rilevazioni non forniscono una fotografia della realtà. E senza elementi certi, le azioni rischiano di non raggiungere l’obiettivo e di essere solo parzialmente efficaci.
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