Il mistero di Rosazzo, la testimone: "Ho visto seppellire alcuni corpi"

Parla Margherita Bucineu che “ospitò” in casa il commando dei partigiani titini. «Facevano scomparire le “spie” nei campi e facevano scavare le fosse. Sentivo le urla»
Dolegna del Collio 15 marzo 2016. Intervista sulle presunte foibe del Bosco Romagno e comando partigiani. © Foto Petrussi
Dolegna del Collio 15 marzo 2016. Intervista sulle presunte foibe del Bosco Romagno e comando partigiani. © Foto Petrussi

DOLEGNA DEL COLLIO. «Mi stavo dimenticando di quelle atrocità. Poi, da quando si è tornato a parlare, non c’è giorno in cui non ricordi quelle urla e quelle povere persone portate laggiù nel bosco a morire».

Margherita Bucineu è per tutti “nonna Nina”.

La conoscono così a Lonzano, piccola frazione di Dolegna del Collio.

Ha 92 anni, ma una memoria di ferro. Sua zia era “gnagne Trude”, la proprietaria della “casa di Truda”, dove, secondo alcuni, sarebbero stati uccisi centinaia di innocenti. «Non so e non sono stata testimone di quello che è avvenuto nell’abitazione di mia zia – racconta Margherita –. Ma posso raccontarvi quello che è successo 500 metri più in là, dove sono cresciuta».

Sulla collina che sovrasta il Bosco Romagno, a ridosso dei vitigni, avvolta dall’edera, c’era la vecchia abitazione di “nonna Nina”. «Avevo in casa il commando dei partigiani – spiega –. Erano i titini, quelli con il fazzoletto rosso. Me li ricordo bene, come se li avessi ancora stampati nel volto. Ero praticamente ospite a casa mia. Perchè erano diventati loro i veri padroni».

Mentre parla, il racconto si fa sempre più dettagliato nei particolari.

«Prendevano nei dintorni del paese chi pensavano fosse una spia, li portavano nella stalla. Li interrogavano. Loro urlavano e poi li portavano nel bosco».

Dolegna del Collio 15 marzo 2016. Intervista sulle presunte foibe del Bosco Romagno e comando partigiani. © Foto Petrussi
Dolegna del Collio 15 marzo 2016. Intervista sulle presunte foibe del Bosco Romagno e comando partigiani. © Foto Petrussi

Margherita ha ricordo di quattro persone scomparse. «Uno era un giovane repubblichino – dice –, un altro era un uomo di San Giovanni al Natisone, il più ricco del paese, e poi c’erano altre due persone. Furono loro stessi a scavarsi le fosse nel Bosco Romagno, poi furono uccisi e gettati dentro. Furono sepolti a poca profondità, in malo modo».

Era il 1945, come ricorda ancora Margherita Bucineu, lo stesso anno a cui risale l’informativa della Farnesina in cui si parla di almeno 200 persone «sepolte nella zona di Rosazzo».

«Io fui “testimone” di questi quattro eccidi. I loro corpi – dice – furono riesumati un anno più tardi e riconosciuti dai loro parenti. Il Bosco Romagno fu un grande cimitero senza croci a quell’epoca».

«Non so quanti morirono – aggiunge – anche se la cifra di cui si parla ora, tra le 200 e le 800 vittime, mi sembra un pò esagerata».

Accanto a Margherita Bucineu ci sono anche il figlio Franco Sant e la nipote Ivana.

È lo stesso Franco, a indicarci da Lonzano la stalla semi diroccata dove venivano torturate alcune persone che poi venivano uccise nei boschi.

Sono stati loro a metterci in contatto con “nonna Nina”, la prima testimone diretta del “mistero di Rosazzo” «perchè sarebbe meglio che queste testimonianze – dice la nipote Ivana – vengano raccontate direttamente da una persona che quegli avvenimenti li ha vissuti personalmente e non indirettamente.

Non era nostra intenzione fare accuse, offese, creare scandali, ma solamente raccontarvi qualche aneddoto che i miei nonni ci hanno raccontato solo parzialmente durante il corso della loro vita».

«Anche a noi – dicono padre e figlia – il numero che viene stimato nel documento del Ministero degli Esteri pare assurdo. Non è possibile».

Margherita, nel frattempo, continua a raccontare. Una storia fatta non solo di misteri, scomparse e omicidi, ma anche, e soprattutto, di guerra e sopravvivenza.

«Vicino alla stalla – ricorda – i titini avevano costruito anche una galleria. Non so se esiste ancora, o hanno coperto con la terra. Vi infilavano di tutto: armi, munizioni, ma anche cibo e bevande che rubavano dai ricchi. Era profonda una decina di metri. Rastrellavano tutto dai paesi vicini, da Corno di Rosazzo a San Giovanni al Natisone. Si erano impadroniti della nostra casa perchè così dall’alto potevano controllare la zona. Loro mangiavano intorno al fuoco acceso, noi eravamo in disparte al freddo».

Poco distanti, secondo quanto aggiunge Margherita, c’erano i tedeschi.

«Un giorno i tedeschi arrivarono nella casa di mio zio, poco sotto la stalla, con un cane. Annusava dappertutto per cercare le persone in casa. In quattro erano nascosti nel’armadio. Fortunatamente, il cane era più preso dalle galline che a cercare gli uomini. E si salvarono. Non so come ho fatto a sopportare quei tempi. Mi sento una sopravvissuta».

«E poi anche a Spessa ho sentito di altre persone uccise a colpi di martello. La gente del paese me ne ha parlato. Ma non ho mai visto con i miei occhi morire tranne quei quattro poveri disgraziati davanti a casa mia».

«Ormai sono passati 70 anni – conclude “nonna Nina” – È passato troppo tempo. Molti dei testimoni non ci sono più. Il Bosco Romagno è stato “ripulito”. Ed è scomparsa anche la memoria di chi perse la vita in quei posti».

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