Il “crematorio dei vivi” Nell’ex polveriera la camera di tortura degli austroungarici

«Di primo acchito, si direbbe un’edicola vespasiana, un ricovero antiaereo. Non è una struttura che figuri nelle nostre mappe d’ufficio, è ciò che più satanicamente raffinato ha saputo escogitare l’efferatezza austriaca per torturare le vittime. Si tratta nientemeno di un vero crematorio dei viventi».
Così testimoniava il sottotenente Pierino Venuti sulla “Polveriera” di Casarsa ne La Patria del Friuli pubblicato il 17 ottobre del 1919. Una descrizione riproposta da Denis Anastasia in uno degli ultimi numeri del Barbacian, edito dalla Pro Spilimbergo.
«La fine del conflitto – racconta Anastasia – fece scoprire anche realtà sconosciute in luoghi a noi vicini come quella che vado a sottoporvi».
«Il vero biglietto da visita del disatto invasore – aveva scritto il sottotenente Venuti sul quotidiano friulano – rivelò a poco a poco ai diligenti cercatori di documenti di barbarie. Giova sempre sapere e ricordare. L’ufficio delle fortificazioni di Udine attende a rimettere allo stato primiero i fabbricati della Polveriera di Casarsa. L’occhio di chi appena entrasse in questo recinto, verrebbe attratto da una piccola ma bizzarra costruzione in calcestruzzo».
Era quello che il sottotenente ha definito come il “crematorio dei viventi” descritto, racconta, da un ufficiale austriaco «competente in materia».
Venuti descrive cosa accadeva nell’edificio. «L’edicola in calcestruzzo – chiarisce– è distribuita in quattro cellette. Nella prima a sinistra era collocato il forno o sorgente di calore che veniva comunicato alle celle attigue mediante un condotto esterno in lamiera zincata. Le altre tre cellette – prosegue –, con volte ad arco di dimensioni digradanti potevano accogliere ciascuna come rinovellati letti di Procuste, due vittime, a seconda della statura, le quali venivano legate e combaciate l’una di faccia a l’altra mediante robustissimi cinghino assicurati in campanelle infisse ai lati nella parete di cemento».
Nella mitologia Procuste è il soprannome di un brigante di nome Damaste che, appostato lungo la strada da Eleusi e Atene, aggrediva i viandanti e li straziava con un martello su un’incudine a forma di letto.
Secondo la ricostruzione del sottotenente Pierino Venuti, al momento in cui il crematorio veniva messo in funzione «le tre celle venivano sbarrate da porte metalliche a chiusura ermetica di chiavarde. La vampata di calore, che aumentava a volontà degli aguzzini, entrata od usciva dai due fori quadrati di fondo, che si potevano chiudere o aprire, con gioco diverso e simultaneo mediante un registro maneggiabile dall’esterno». Nel pavimento delle cellette era stato realizzato uno scolo che «raccoglieva le deiezioni e, pare incredibile, il sudore che a gran copia stillava e fluiva dalle membra martoriate dei pazienti».
«A rendere la squisitezza del supplizio – sottolinea il sottotenente Pierino Venuti – lo strazio dei condannati, gli spasmi dell’immobilità, le contorsioni importanti per il calore avvampante, è più adatta l’immaginazione che la parola. L’austriaco che ci fu da Cicerone – conclude l’ufficiale – assicurò che moltissimi soccombevano all’inaudita barbarie». —
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