Gli Antonini da Amaro a Udine

Ecco come “Tunin” divenne potente in città. Mercoledì la presentazione del volume

UDINE. Nel 2018 saranno cinquecento anni esatti da quando la famiglia Antonini, nata da un capostipite carnico, zona Amaro, che si chiamava “Tunin”, entrò a far parte di Udine, prima in punta di piedi e poi in maniera sempre più organizzata grazie a una strategia che puntava su due aspetti fondamentali: acquisizione di case e palazzi da un lato, matrimoni giusti e mirati dall’altro.

Non a caso questi laboriosi montanari, con il fiuto sopraffino degli affari, approdarono in città in quel periodo dopo essere passati in una prima fase da Venzone.

Era un momento difficilissimo per Udine, squassata dal 1511, anno di rivolte sanguinose e di terremoti catastrofici. Venezia, che qui comandava, aveva bisogno di famiglie fedeli alla Serenissima e capaci di moltiplicare i capitali per dare robustezza economica al territorio.

Caratteristiche cucite addosso agli Antonini, famiglia che a un certo punto diventò come quei fiumi che si dividono in più rami quando arrivano alla foce: così nei secoli si sono moltiplicati tra Antonini cosiddetti del Patriarcato (chiamati in tal modo perché avevano il palazzo proprio vicino alla curia), e poi quelli di Grazzano, di Ceresetto, di Gemona, di San Cristoforo dai nomi dei borghi in cui si erano insediati.

La cosa singolare è che poi questa galassia ha trovato un punto di incontro nel castello e nel feudo di Saciletto, eremo immerso nella Bassa friulana.

Dunque, siamo davanti a una vicenda allargata e complessa che soltanto un volume come quello pubblicato da Gaspari poteva raccontare nella sua interezza. Liliana Cargnelutti, da ricercatrice, è andata a scovare atti notarili e documenti negli archivi più remoti per proporre una trama da romanzo.

È incredibile come grazie a simili strumenti sia possibile narrare, con minuzia di dettagli e senza annoiare il lettore, una ragnatela di rapporti umani e familiari attraverso i quali poi riscoprire il passato di una terra, di una città.

Questo riesce quando, superando i limiti della pura erudizione, si utilizza l’arcana virtù di desumere lo spirito di una civiltà dalla sua architettura e di trattare le costruzioni antiche e la gente che le ha realizzate come due sfaccettature di una storia che continua.

In ciò intravvediamo così il rapporto esistente tra come eravamo e come siamo diventati adesso. Il volume sugli Antonini rappresenta un esempio notevolissimo in tal senso facendo capire pure quale sia ancora, fortunatamente, il livello culturale di Udine visto che di qui, al di là dei protagonisti di cui si parla, sono tutti gli autori e quanti hanno collaborato all'impresa, editore incluso.

Tanti i personaggi di spicco che emergono nel mezzo millennio alle spalle, molto cruento in certe fasi perché faide, ammazzamenti, agguati erano frequenti. E di essi pure gli Antonini fecero le spese, partecipandovi però con uno spirito meno animoso e bellicoso rispetto ad altri illustri casati, quali i Savorgnan o i Torriani.

Una delle figure di maggior fascino fu quella di Daniele Antonini, chiamato addirittura il sublime Daniele, un giovane meraviglioso che aveva studiato matematica a Bologna e poi a Padova con Galileo con il quale in seguito avviò un lungo epistolario in cui il ragazzo rivelò tutta la sua genialità.

Esigenze superiori lo portarono alla carriera militare al servizio di Venezia come comandante della cavalleria cittadina. Morì, esattamente 400 anni fa, nel 1616, colpito da una cannonata in petto a Gradisca e divenne subito un mito per la famiglia e i friulani tanto che, caso forse unico, la sua statua equestre fu collocata nel duomo udinese, dov’è tuttora, di fronte all’altare maggiore.

Circostanza tragica, ma segnò probabilmente uno dei punti più alti per la gloria e il potere esercitato dagli Antonini, coccolati con immenso affetto dai veneziani che li anteponevano alle riottose dinastie residenti nei castelli.

Ci sono mille volti ed episodi (al di là dei bellissimi palazzi) a legare i “Tunin” scesi dalla Carnia a vie e piazze attorno a Mercatovecchio. Una delle vicende più singolari, e grottesche, specchio dei tempi di allora, avvenne a fine Seicento quando una donna della famiglia, Livia, sposata a un Manin, venne ferita con un colpo di pistola da un individuo mascherato, identificato in seguito per un certo (il nome è tutto un programma) Brandimarte Merlo, su mandato di un’altra donna, Olimpia di Varmo, moglie di Girolamo Savorgnan (eccoli qua, dunque).

L’antagonismo tra la bionda e gentile Livia e la bruna e volitiva Olimpia era esploso proprio attorno a Brandimarte, di mestiere cicisbeo e accompagnatore ufficiale di Olimpia, con consenso del marito. Una storiella persa laggiù nei meandri del passato e che Cargnelutti riesuma donandocela in tutta la sua verve.

Così ha fatto poi per spiegare gli ultimi palpiti della dinastia, che nell’Ottocento si dirada fino a sparire come un fiume carsico. L’ultimo bagliore si accende oltreoceano, a New York, e le parole finali sono scritte in inglese da Carolina, nipote di un certo Antonino Antonini, medico, emigrato nelle Americhe nel 1867.

Suo figlio Germanico, papà di Caterina, fu interprete alla corte magistrale di Brooklyn. Lei non sapeva nulla delle origini familiari tanto meno di Udine finché il conte Enrico del Torso la rintracciò inviandole un libro con riportate le vicende degli Antonini.

Lei, il 13 marzo 1928, gentilmente e timidamente ringraziò. Due righette, il congedo di gente straordinaria.

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