Giorno della memoria, riaffiora l’orrore

Su Luciano Battiston, 88 anni, di Azzano Decimo, condannato a morte, graziato, deportato a Mauthausen, sopravvissuto al campo di sterminio nazista e rientrato nella sua casa a Fagnigola, ha scritto una tesi di laurea il nipote Alessandro Fantin, per la facoltà di lettere e filosofia dell’Università di “Ca’ Foscari” a Venezia. Ogni dettaglio delle vicende di nonno Luciano emerge da quelle pagine.
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Alpino della Julia, destinato al fronte orientale, Luciano torna a casa dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Rifiuta di arruolarsi con i repubblichini di Salò e vive coltivando i campi di famiglia. Dalla primavera del ’44, conosce e aiuta i partigiani azzanesi. e’ catturato dalla milizia fascista di difesa territoriale, comandata dal capitano Arturo Vettorini. È una rappresaglia per il sabotaggio della linea telefonica tedesca di Azzano X. Le case di Fagnigola sono setacciate dalla milizia fascista di Vettorini nella notte fra il 5 e 6 gennaio 1945. Tutti i giovani del borgo vengono prelevati.
Luciano e gli altri vivono stipati in carcere fino al 13 gennaio, quando li processano all’Albergo Moderno, sede del comando tedesco. Il tribunale nazista impiega meno di mezz’ora per emettere quaranta condanne a morte. «Per loro – ricorda Battiston – eravamo partigiani da fucilare, solo perché non c’eravamo presentati ai repubblichini e tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre». In un primo memento le Ss rifiutano ai morituri un foglio di carta e la penna, per scrivere la richiesta di grazia. La domanda con il lungo elenco dei nomi, viene compilata dopo le reiterate richieste dei condannati.
Le fucilazioni. Nove dei quaranta prigionieri, sono portati davanti il plotone d’esecuzione, composto da fascisti della brigata nera, all’alba del giorno successivo, 14 gennaio 1945. Rinaldo Azzano “Dante”, 23 anni, Pietro Pigat “Tom”, 29 anni, Elli Vello “Fulmine”, 19 anni, Olivo Ghiarot “Leo”, 23 anni, insignito alla memoria di Medaglia d’Argento al V.M., Giacobbe Perosa “Sgnappa”, 32 anni e Agostino Mestre “Pedro, 22 anni, decorato alla memoria con croce al valor militare sono tutti azzanesi, amici di Luciano Battiston. Sotto le raffiche dei mitra fascisti della brigata nera, cadono sull’angolo di Via Montereale della caserma Umberto I, assieme a Davide D’agnolo “Attila”, 23 anni di San Martino al Tagliamelo, Ferruccio Gava “Tigre”, 23 anni di Prata e ad Edoardo Ruffo, 18 anni di Zoppola.
Il Libro Matricola del carcere di Pordenone attesta inoltre che, quella stessa mattina della fucilazione, 14 gennaio 1945, ventotto, fra partigiani e civili, sono prelevati e trasferiti alle prigioni di Udine, nel braccio dei condannati a morte. Nove fra questi, tutti del Pordenonese, vengono poi uccisi. Francesco Aleo “Sacco”, 30 anni, Medaglia di Bronzo al V.M. residente a Zoppola, Cesare Longo “Giorgio”, 21 anni di Fagnigola, Calogero Zaffuto “Angelo”, 27 anni, residente a San Quirino, Giannino Putto “Pronto”, 20 anni di Fagnigola, Elio Marcuz “Trim”, 22 anni, di Azzano X, sono fucilati dai fascisti a Tarcento il 1° febbraio 1945, Aleo, miracolato, sopravvive. Giovanni Bortolussi “Vanni”, 21 anni, di Zoppola è fucilato dai fascisti a Tricesimo il 4 febbraio 1945. Fedele Da Pieve, 53 anni di Porcia, Floris Pasut, 30 anni di Palse, Rino Allegretto “Tom”, 21 anni di San Quirino e Felice Bet, 16 anni di Pordenone, non sono più tornati dai campi di sterminio nazisti. Luciano Battiston, il 31 gennaio, da Pordenone è tradotto nel carcere di Udine, con altri 13 prigionieri. Il mattino del 7 febbraio, Luciano è deportato a Mauthausen. Appena arrivati, senza mai mangiare, né bere, quello stesso prigioniero si suicida, gettandosi sotto un altro treno. Luciano resiste nel campo per quasi tre mesi, fino alla liberazione. Gli americani arrivano il 5 maggio 1945.
Il campo di sterminio. A Mauthausen, tutto è studiato dai nazisti per annullare la personalità degli internati e distruggerli fisicamente. Privato del nome, dei vestiti, Luciano corre in mezzo alla neve, nudo, con la divisa a strisce sotto il braccio, fino alla baracca assegnata. Al mattino presto riceve la piastrina numero 126625, gli rasano peli e capelli, con la croce in testa per dimostrare l’appartenenza al lager del prigioniero in caso di fuga. Bastonate sempre, appello al gelo in piena notte. Promiscuità assoluta, si dorme gli uni a ridosso degli altri, a coltello: uno di testa, l’altro di piedi. Luciano è assegnato a lavori di scavo. Un’unica sbobba al giorno. La fame accompagna ogni momento della vita. «Certe volte, per mangiare di più – racconta Luciano – aspettavamo che i kapò buttassero via le immondizie nei bidoni vicino alle baracche. Il primo che arrivava metteva quasi tutto il corpo dentro il bidone, così mangiava senza prenderle, perché i kapò, per mandarci via pestavano tutti quelli intorno». Luciano ricorda di aver lavorato per diversi giorni nella cava di pietra di Mauthausen. Ci caricavano una roccia a testa, su una specie di portantina fissata alle spalle. «Dovevamo salire la scala di 186 gradini. Chi cadeva, ne trascinava altri dieci, perché eravamo legati. In fondo alla scala, agli sventurati le
Ss sparavano il colpo di grazia. Poi i cadaveri erano gettati dentro un laghetto e la corrente se li portava al Danubio. Per loro il crematorio non serviva più». Chi lavora sulla scala della morte, non sopravvive più di un mese. L’assegnazione ad altri servizi del campo, compreso il crematorio, permettono a Luciano di non morire. Nel crematorio si bruciano i cadaveri di coloro che muoiono di stenti e fatica, assieme a quelli di chi è stato sottoposto ad esperimenti da parte dei medici nazisti e ai tanti prigionieri che si suicidano.Il ritorno a casa. I detenuti russi di Mauthausen disarmano le poche guardie naziste rimaste, quando stanno per entrare gli americani. Luciano, l’amico Vigi e un gruppo di compagni decidono di tornare subito a casa con mezzi di fortuna. Ai posti di blocco americani si recupera un po’ di cibo, anche carne in scatola. Provvidenziale per Luciano, che ormai si regge a stento, il passaggio su un camion fino a Udine, da dove, malgrado febbre e dissenteria, raggiunge Pordenone su una corriera.
Al comando partigiano si ricordano di lui e del suo amico Vigi, che lo accompagna da quando hanno lasciato il lager. In macchina li portano a casa. «Apro il cancello – ricorda Luciano - mia mamma e le mie sorelle non mi riconoscono. Sono Luciano, dico loro, e per rassicurale nomino le mucche che avevamo in stalla, quando i fascisti mi avevano catturato. Intanto stavano suonavano le campane per il nostro ritorno a casa».
Sigfrido Cescut
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