Franco Di Mare: «Ero a Mostar e vidi morire i miei amici»

L’intervista al giornalista che domani sera presenterà il Premio Luchetta al teatro Rossetti di Trieste

Ricordi liberi, tutti assieme. Quando li ripassi si allineano, magari senza il rispetto del tempo; vai avanti, poi riavvolgi, ne salti qualcuno e lo recuperi poi.

Vent’anni a sentir fischiare pallottole, dove capitava. Nel mondo degli assassini di guerra. Presentò la prima edizione del Luchetta, Franco Di Mare, pure altre serate nel mezzo di questo decennio - «irraggiungibile quella con Mara Venier nel 2004», racconta. «Trieste festeggiava i cinquant’anni del ritorno al tricolore e sul molo Audace i rimorchiatori s’inventarono una scenografia pazzesca, un muro d’acqua davanti a piazza Unità» - torna per la decima (domani sera al teatro Rossetti) ed è lui l’uomo immagine del premio, un terzo di vita passato a spiegare a quelli di casa il perché e il per come di certe follie umane.

«Io c’ero a Mostar, il maledetto giorno. Mi spedì il Tg2. Vidi i corpi straziati degli amici Marco, Alessandro, Dario e aiutai a ricomporli nelle bare. C’è del sentimento autentico per il Luchetta, commozione e rabbia. Ancora lì. E c’è Trieste, la città della sosta prima di affrontare i Balcani. Recuperavamo l’auto blindata, le chiacchiere con Paolo Rumiz, si riordinavano le paure e il coraggio e poi partivi».

- Certi giornalisti amano starsene pacificamente sul desk e altri se non corrono su e giù per il globo con l’adrenalina ai massimi si deprimono...

«Guardi, non c’è mai una sola ragione. Alle volte è il caso. Ti mandano, tu accetti. Torni vivo e ti marchiano a fuoco come un esperto di battaglie. Ti rimandano nella bolgia e così avanti. Sei un testimone, cerchi di dare un senso alle brutalità, anche se un senso vero e proprio non c’è mai. Ti imponi di scivolare dietro la strage, vai dietro le bombe, racconti quel che vedi, evitando la retorica, parlando secco e chiaro».

- Tra la prima missione e l’ultima?

«L’evoluzione tecnologica. Avevamo un satellitare grosso come una lavatrice con un ricevitore simile a un ombrellone da spiaggia. Adesso basta un telefonino per filmare e in pochi secondi sei in rete. Noi italiani abbiamo cominciato tardi ad affacciarci sulle tragedie internazionali. Posso dire di essere stato un pioniere. Si ricorda il Vietnam? Gli americani già nei Sessanta/Settanta convivevano con un altrove in tumulto, noi europei eravamo più romantici, cominciammo ad appassionarci ai luoghi caldi del pianeta dopo la caduta del Muro di Berlino».

- A Unomattina l’unico disagio è alzarsi molto presto. Le manca il brivido, Di Mare?

«Forse, ma forse anche no. C’è un momento per tutto. Finito il quale si rientra nei ranghi. Il mestiere è cucito bene addosso a chi non ha grandi affetti da lasciare quando sale le scalette dell’aereo. Se hai una famiglia, e spesso questa famiglia non riesci a sentirla per giorni perché devi sparire, non può capire la sofferenza. Sapere che loro non sanno nulla di te e sicuramente stanno male, è un patimento troppo grande per ripetersi ancora e ancora. Basta».

- Ha pensato: stavolta non torno?

«Una volta sì. In Africa ci ritrovammo in balia di bimbi soldato che imbracciavano mitra più grossi di loro. È un attimo, ’sti mocciosi non hanno la preparazione dei militari veri, gli scappa un colpo e sei morto. Tornai dalla Cisgiordania con la schiena massacrata da un’esplosione, però poi risali in groppa subito, altrimenti ci ragioni e non riparti più».

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