Federico Buffa racconta una Gorizia mondiale

Il re delle storie di sport incantato dall’unicità e dalla magia della città di confine «Nel ’77 seguii la mia Milano 2 in trasferta. Tifoso solitario, mi pagarono da bere»

«Gorizia ha una passione senza eguali per il basket. C’è una cultura unica e lo si nota anche da come sono tenuti i campetti all’aperto. Nell’epoca d’oro i campioni isontini erano diversi dagli altri, avevano un modo di giocare che non c’entrava col resto della pallacanestro italiana. Una libertà espressiva che arrivava indubbiamente dal contesto sociale ed etnico “di confine”, con quella componente di “balcanicità”, che contribuiva a renderli unici».

Il tono e i contenuti della riflessione portano la firma inconfondibile di Federico Buffa. Il più celebrato “storyteller” dello sport italiano è stato protagonista la scorsa settimana di una indimenticabile e applauditissima ospitata cormonese per “Goal a grappoli”. Occasione propizia per chiedergli, a margine della serata, il suo pensiero su ciò che Gorizia rappresenta nell’immaginario cestistico italiano. L’arte affabulatoria di Buffa scaturisce non solo da un talento espressivo unico, ma anche e soprattutto dall’inesauribile curiosità verso la vita, al di là degli aspetti strettamente sportivi. Ed ecco allora che la sua riflessione su Gorizia non poteva che partire dal contesto territoriale: «La mia impressione è sempre stata quella di una terra dove fin dagli anni Cinquanta si è respirata una cultura di pallacanestro come accade forse solo a Lubiana o Trieste - premette il giornalista-avvocato milanese -. Anche in relazione ai mezzi economici che aveva, questo territorio resta qualcosa di unico per aver prodotto tanti giocatori di livello internazionale e aver mantenuto per decenni una squadra ad alti livelli. È chiaro che il contesto, anche dal punto di vista etnico, ha avuto il suo peso. Quando penso a Paolo Vittori, Pino Brumatti e Tonino Zorzi, vedo giocatori che avevano una creatività e un’espressività “balcaniche” che li rendevano unici. Erano cresciuti in una città magari non ricca, ma dove si sapeva insegnare la pallacanestro. Non a casom Pino aveva forse il miglior arresto e tiro mai visto in un giocatore italiano, una pulizia con pochi eguali, un controllo del corpo eccezionale. È un giocatore che ha lasciato una traccia indelebile. Aveva una spontaneità che lo distingueva. Mi ha colpito la vicenda del ritardo nei soccorsi quando Brumatti ha avuto il malore fatale. Ci sono uomini destinati a vivere diversamente e anche ad andarsene diversamente. Mi fa molto piacere che gli abbiano intitolato un premio».

«Zorzi - continua Buffa - ha segnato oltre 50 anni di basket italiano da giocatore e da allenatore. A parte Rubini, non mi viene in mente un altro personaggio che abbia inciso così tanto. Quando si parla di Zorzim si viene confusi dall’umorismo, dall’atteggiamento divertente verso la vita, dalla bonomia e si perde di vista quello che c’è dietro, ovvero uno straordinario maestro di pallacanestro. Vittori, per ragioni anagrafiche, l’ho visto giocare di meno, ma è stato uno dei più grandi».

Infine, Buffa ci regala un suo ricordo della Gorizia degli anni ruggenti targati Pagnossin: «Da ragazzino ero tifosissimo dell’“altra” squadra di Milano e innamorato cestisticamente di Chuck Jura. Nel campionato ’76-77 seguì la Xerox in tutte le trasferte, compreso un mercoledì sera a Gorizia, dove ero l’unico tifoso degli ospiti: prendemmo una ripassata notevole (107-88, con 37 di Garrett; ndr). Ricordo perfettamente il clima caldo del palasport, con i tifosi che muovevano i supporti del canestro attaccato alla parete. In un certo senso ricordava le atmosfere di certi palazzetti slavi e a me piaceva molto. In tutte le trasferte in giro per l’Italia, con la mia sciarpa della Xerox addosso, mi ero beccato fior di insulti, invece qui venni “adottato” dai tifosi goriziani, che mi facevano i complimenti per essere venuto da solo da Milano in un freddo mercoledì sera. Alla fine mi offrirono addirittura da bere. Capivo che qui si respirava un’altra cultura, quella del “tajut”, che sposo integralmente. Altro che il caffè...».

Piero Tallandini

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