Elezione di Trump, ad Aviano oltre 700 civili italiani col fiato sospeso

I dipendenti legati alle decisioni d’oltre Oceano. Non è la prima volta che la permanenza della struttura miliare è a rischio
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AVIANO. Fu un mese di paura, agosto 1993. Il Pentagono aveva messo Aviano nella lista delle basi da chiudere. Tre mesi dopo, invece, siglava il nuovo accordo tra Italia e Usa per l’ampliamento. A “salvare” Aviano furono due vicende separate, che si incrociarono al momento giusto: la crisi in Bosnia e la chiusura della base di Torrejon, in Spagna, col trasferimento permanente nella pedemontana di due squadroni di F-16.

Gli americani, per la verità, avevano messo gli occhi su Crotone, più vicina a Medio Oriente e Africa del nord. Ma a fare la differenza furono i soldi. Scartata l’ipotesi calabrese, furono valutate Brindisi e Gioia del Colle: troppo piccole. Ecco, allora, il “ripiego” che si rivelò strategico, nello scacchiere europeo. I soldati stelle e strisce, allora, erano 213 mila, di qua dell’Oceano (67 mila nel 2015).

Luglio 2016, un venerdì notte fallisce il colpo di stato in Turchia. La base di Incirlik, utilizzata dagli americani anche come deposito di testate nucleari, viene bloccata, il comandante (turco) fermato. In quindici giorni gli Usa smobilitano e se ne vanno. Tutti.

Paolo Tarchi fu per 25 anni responsabile delle pubbliche relazioni della Base pordenonese. Nel libro “Aviano-Usa” (edizioni Omino Rosso), nel 2007 spiegava: «Ho visto cambiamenti improvvisi e inattesi. Gli americani dicono: finché c’è consenso restiamo. Altrimenti ce ne andiamo. Ma il futuro è nelle mani del presidente degli Stati Uniti». Profetico.

Tutti i governi europei si chiedono che cosa farà Donald Trump con la Nato – dove solo cinque Paesi (e non l’Italia) investono più del 2 per cento del pil in spese per la difesa mentre gli Usa contribuiscono con il 75 per cento dell’intera spesa dell’Alleanza atlantica – e com le basi americane in Europa. Il neopresidente in campagna elettorale è andato sostenendo che le Basi in Europa vanno smantellate, perché costituiscono un pesante centro di spesa pubblica.

A breve termine i dipendenti italiani, 726, non hanno nulla da temere, tanto che sarà, paradossalmente, completata la «riorganizzazione» interna che prevede un incremento numerico con l’arrivo degli elicotteri dalla Gran Bretagna. Non finirà come a Incirlik, insomma: gli Usa non se ne andranno in 15 giorni, quantomeno perché vi sono accordi bilaterali da rispettare. Nel medio-lungo termine, però, la decisione è nelle mani del nuovo presidente degli Stati Uniti.

Occorre interpretarle, le parole di Trump, viene fatto notare. «Ha parlato di Nato, Aviano è base Usa». Il cui ampliamento è stato realizzato con fondi Nato, sebbene l’Alleanza atlantica non ci metta un euro, nella gestione della struttura. «Troppo presto per fasciarsi la testa – si dice ancora tra i dipendenti italiani – caso mani i problemi potrebbero esserci con eventuali riorganizzazioni». Quella del 2014 comportò 43 licenziamenti, che vennero assorbiti da altri settori. In caso di “Aviano, addio”, invece, sarebbe un colpo al pari della chiusura di una grande azienda: centinaia di persone licenziate e un’area grande come un paese, perlopiù militare, da bonificare e riconvertire. Una legge degli anni Settanta impone l’assunzione degli “esodati” italiani assunti sino al 1989 negli uffici pubblici, ma deve essere finanziata ogni anno. Per il 2016, per esempio, la copertura non c’è ancora.

È possibile che Aviano torni alla situazione ante 1993? Non è escluso, ovvero base logistica, priva di squadroni stabili.

Che ne potrebbe essere, dunque, di Aviano post Usa? Le ipotesi, nel corso degli anni, si sono sprecate. Una riconversione in aeroporto militare italiano viene dato per escluso, mentre sarebbe certo l’addio, caso mai, del personale Ami: Istrana è a due passi, come Rivolto. Scartata pure l’ipotesi di conversione in aeroporto civile: Ronchi fatica di suo a est, il polo Venezia-Treviso a ovest con Verona, non lasciano spazi di manovra.

Ancor meno probabile la cessione dell’area demaniale (appartiene allo Stato italiano) all’aeroclub per ultraleggeri. E dunque? «Quella Base – dice Tiziano Tissino, “storico” pacifista che nel 2008 portò sino in Cassazione, invano, il ricorso perché la Base traslocasse, invocando il rischio per l’incolumità delle persone – poteva essere un centro di pronto intervento della protezione civile in caso di calamità naturali.

Oppure un campus universitario, dotato di migliaia di alloggi, aule, zone studio, infrastrutture come strade e negozi a due passi dal Cro. Il problema – ricorda le “campagne pacifiste” Tissino – non è trovare qualcosa d’altro da metterci, al posto della Base, perché si trova sicuramente, magari reimpiegando anche il personale civile. C’è da chiedersi, invece, perché Aviano non abbia mai investito su altro: si è “ingrassata” per anni, con gli americani, a scapito ad esempio dell’artigianato e della piccola industria».

Se gli americani decideranno di andarsene, temono i lavoratori, nessuno li potrà fermare. E, da un giorno all’altro, si trovano a a fare i conti con la precarietà.

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