E' morto Gigi Proietti, oggi avrebbe compiuto 80 anni: lavorò in Fvg per due volte

UDINE. Non sono state molte le volte di Gigi Proietti in regione: nei lontani anni ’60 con La caserma delle fate, (1965)un cabaret firmato da Giancarlo Cobelli e un paio d’anni dopo con il Dio Kurt di Alberto Moravia, accanto ad Alida Valli; a metà degli anni ’80 con Alleluja brava gente, commedia musicale di Garinei e Giovannini a fianco di Renato Rascel e nella stagione ‘1996/’97 con A me gli occhi, please!, il suo fortunatissimo one man show che l’attore teneva in repertorio dal 1976 (questi due ultimi visti solo al Rossetti di Trieste, ché gli spazi richiesti non erano ancora disponibili a Udine, il Palamostre troppo piccolo, e allora il compianto Castiglione organizzava i pullman.)
Pochi spettacoli ma assai ben significativi del percorso artistico e teatrale di questo nostro grande attore, nei quali in controluce è possibile anche leggere come si è andato sviluppando nelle sue molteplici sfaccettature il teatro italiano nella seconda metà del ‘900.
Giovanissimo, al suo debutto nel teatro professionista, con il primo spettacolo Proietti già faceva intravedere le sue doti di istrione, cantante attore mimo, in un genere, il cabaret, allora prima graffiante forma di satira di costume, approccio ironico e smaliziato alla società italiana alle prese con il boom economico, ai suoi vizi, tanti, e alle sue pochissime virtù.
Un approccio al mondo e al teatro che nel corso della sua lunga carriera Proietti arricchirà con sapienza e intelligenza critica. Lo spettacolo dal copione di Moravia rappresentava invece il coté impegnato del teatro di quegli anni, legato alla ricerca di una drammaturgia nuova, virata al presente e alla rilettura della Storia, e che caratterizzò per alcune stagioni le scelte di Proietti, prima nel Teatro Centouno, una formazione di giovani capitanati da Antonio Calenda, decisi a svecchiare le scene italiane con testi e spettacoli di autori nuovi - fu palestra, ad esempio per Corrado Augias, o con autori europei legati alle sperimentazioni e alle avanguardie più audaci, da Apollinaire a Beckett da Genet a Pinter e a Gombrowitz.
E poi per un paio di stagioni allo Stabile dell’Aquila, dove ritornerà nel 1974 per una memorabile Cena delle beffe accanto a Carmelo Bene: esperienza assai particolare e sofferta da cui si “disintossicherà” proprio con il suo personalissimo show.
Nel frattempo era arrivato il cinema, la commedia musicale, la televisione e il grande successo di pubblico, quello della critica un po’ meno, sempre restia, com’era, ad accettare l’arte di un attore, come Proietti, che affondava nella tradizione popolaresca dalla commedia dell’arte al café chantant al varietà e che nulla aveva dello sbandierato rigore e delle pretese intellettuali, più spesso intellettualistiche, che invece erano apprezzate allora (anni ’70 e ’80) nel teatro di ricerca e sperimentale, anche il più astruso.
Non si faceva un cruccio, però di questa sorta di snobismo che la critica e l’ambiente teatrale gli riservava, come confessava senza rancore ma con una specie di sincero pudore a chi scrive in una lunga intervista, pubblicata nel Quaderno numero 58 dello Stabile regionale nel 1996 in occasione delle rappresentazioni di A me gli occhi, please.
“Fu guardato con sospetto e sufficienza A me gli occhi che non aveva nulla del recital paludato che andava in quegli anni. Anzi era volutamente il contrario, era qualche cosa di disorganico, c’erano pezzi assolutamente beffardi, popolareschi, anche il fattaccio romanesco, però recitato come fosse l’Otello, mentre in un altro pezzo facevo l’attore gergale ‘io so’ attore di estrazione popolare, l’epica, l’epica’ e mi chiedevo che fosse l’epica, l’effetto di straniamento, cose sulle quali all’epoca si versarono fiumi di inchiostro, ma che nessuno è mai riuscito a indicare bene cosa fossero concretamente sulla scena.
Per cui per anni, in quegli anni, si è assistito a cose incredibili, esilaranti, brave persone che dicevano cose allucinanti, spostando la punteggiatura, stravolgendo la sintassi, prendendo respiri strani. Per cui il mio A me gli occhi era considerato con snobismo sin troppo popolare e ruffiano.”
Quando invece, anche nel corso delle sue modificazioni, fu una sorta di illuminato e illuminante, oltre che divertentissimo, viaggio “di Proietti contaminatore all’interno della propria testa, con poco maledettismo ma con tanti suoni o idee che scattano da un niente come nella commedia dell’Arte.”
Così sul palcoscenico prendevano corpo in una trama irresistibile di contaminazioni tra grandi autori, personaggi memorabili: non uno ma mille Shakespeare, non uno ma mille Petrolini in un vorticoso attraversamento di generi teatrali - dalla tragedia alla commedia, dalla satira alla canzone popolare, dal numero di cabaret al gioco delle imitazioni…
Uno spettacolo che ha fatto scuola, a che se non ha avuto eredi, tanto era unica originale creativa l’arte di Proietti, al quale, proprio dopo una recita di A me gli occhi, please!, il grandissimo Eduardo de Filippo disse “finalmente qualcuno continua!” Con Proietti se ne va un altro, forse l’ultimo, grande della scena italiana. E all’orizzonte altri di quel calibro non se ne vedono, ahimè.
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