È morto Gianluca Vialli, addio campione
L’ex centravanti stroncato dal tumore che lo tormentava da tempo. Aveva 58 anni. Quando a Udine portò la sua Samp dallo 0-3 al 3-3

L’altro giorno nella curva della sua Juventus allo stadio Zini di Cremona, lo stadio della sua città e della prima squadra tra i professionisti, l’ultimo omaggio.
Uno striscione che voleva dire tanto. Gianluca Vialli se n’è andato a 58 anni a Londra. Ha perso la sua partita con il cancro al pancreas, il più terribile, il meno curabile ancora purtroppo, sapeva sarebbe stata una gara difficile da rimontare.
Tante volte sul campo ci era riuscito. Ne ricordiamo una, era l’inizio del campionato 1989 allo stadio Friuli. Era l’Udinese di Bruno Mazzia, di Gallego e Sensini. Farà poca strada quella squadra.
Contro, la Samp di Vialli e Mancini, i gemelli del gol, i friulani però volarono avanti 3-0 nel primo tempo. Finale? 3-3 perché Vialli aveva deciso di fare il fenomeno. Sul campo lo ha sempre fatto il fenomeno, leader dentro e fuori dal rettangolo verde.
Poi, però, nel momento più difficile, quando la vita gli aveva dato tutto, soldi, fama, vittorie, ha fatto il fenomeno vero, ineguagliabile, provando a giocare una battaglia contro il cancro con grinta, umiltà, realismo. Riuscendo, anche in questo momento difficile, a uscire da campione, dando un esempio ai giovani ed essendo farò per tanti ammalati come lui.
Solo all’inizio di dicembre aveva rinunciato all’incarico di team manager della nazionale, con cui aveva vinto l’Europeo 2000 (indimenticabile la foto con il “fratello” Vialli sul prato di Wembley dove avevano perso con la Samp la Coppacampioni del 1992) era stato un segnale che “il maledetto” stava per presentare il conto.
Ad Alessandro Cattelan in tv, in un dialogo intenso e da rivedere, così aveva parlato della sofferenza e della morte: «La malattia non è esclusivamente sofferenza. Ci sono dei momenti bellissimi. La malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, ti può spingere anche più in là rispetto al modo anche superficiale in cui viviamo la nostra vita. La considero anche un’opportunità. Non ti dico che arrivo fino a essere grato nei confronti del cancro, però non la considero una battaglia.
L’ho detto più volte. Se mi mettessi a fare la battaglia col cancro ne uscirei distrutto. Lo considero una fase della mia vita, un compagno di viaggio, che spero prima o poi si stanchi e mi dica “Ok, ti ho temprato. Ti ho permesso di fare un percorso, adesso sei pronto”.
Cerco di non perdere tempo, di dire ai miei genitori che gli voglio bene. Mi sono reso conto che non vale più la pena di perdere tempo e fare delle stronzate. Fai le cose che ti piacciono e di cui sei appassionato, per il resto non c’è tempo. Siamo qui per cercare di capire il senso della vita e io ti dico: ho paura di morire».
Niente rovesciate e gol in acrobazia, per cui divenne celebre fin da ragazzo, tanto che il grande Brera, geniale con questi epiteti, lo chiamò “Stradivialli”, ma parole uscite dal cuore. Che, rilette ora sono un pugno allo stomaco. Come quelle sulla morte. Leggete. «Non so quando si spegnerà la luce che cosa ci sarà dall’altra parte.
Ma in un certo senso sono anche eccitato dal poterlo scoprire – aveva detto -. Mi rendo anche conto che il concetto della morte serve per capire e apprezzare la vita. L’ansia di non poter portare a termine tutte le cose che voglio fare, il fatto di essere super eccitato da tutti i progetti che ho, è una cosa per cui mi sento molto fortunato. La malattia non è esclusivamente sofferenza: ci sono momenti bellissimi. La è fatta per il 20 per cento da quello che ti succede, ma per l’80 per cento dal modo in cui tu reagisci a quello che accade.
E la malattia ti può insegnare molto di come sei fatto, essere anche un’opportunità. Non dico al punto di essere grato nei confronti del cancro, eh...».
Prima di queste parole Vialli i capolavori li aveva fatti sul campo e nella vita, costruendosi, ad esempio a Londra, la sua seconda casa, una splendida famiglia con moglie e due figlie che adorava. Sul campo Vialli è stato semplicemente all’inizio il trait union tra gli anni Ottanta, quelli della nazionale Mundial del 1982 e quelli delle Notte Magiche e poi del calcio dei milioni di Abramovich e altri in Premier.
Grazie ai successi con l’Under 21, Vialli salì sull’aereo per il Mondiale in Messico del 1986, quello della mano di dios di Diego, che buttò fuori la nazionale di Bearzot, in cui il “Vecio” appunto aveva ritagliato uno spazio come sapeva meravigliosamente fare per Vialli, comprendendone la bene forza tecnica e caratteriale. Vialli è poi stato il leader dell’Italia del Moniale in casa del 1990, di Vicini, delle “Notti magiche di Schillaci”.
Avrebbe dovuto essere il Mondiale dell’apoteosi di Gianluca e diventò quello dei gol di Schillaci e della delusione ai rigori di Napoli. Nel frattempo a Genova, sponda Samp, con Boskov il sodalizio con Mancini era iniziato a suon di gol e spettacolo.
Fino allo scudetto del 1991, nato dal patto tra i due: nessuno se ne va via da qui finché non portiamo il tricolore al presidente Mantovani. Poi alla la delusione della finale della Coppacapmpioni di Wembley con quella punizione di Koeman, ma anche un Coppa delle Coppe in bacheca, negli anni del dominio italiano in Europa, prima del passaggio alla Juventus.
Avrebbe pagato qualsiasi cifra Berlusconi, re del mercato col suo Milan in quegli anni, per avere Vialli. Ce l’ha fatta l’Avvocato. Vialli si trasforma, fa fatica col Trap anche se vince una Coppa Uefa, riesplode con Lippi. Trasformato: robusto, da centravanti vero col passare degli anni, spettacolare sempre. E soprattutto leader.
Scudetto e Champions 1995 con l’Ajax all’Olimpico di Roma. L’unica vera Champions della Juve. Quindi un’altra avventura epocale per Vualli, quello che precorre i tempi. A Londra, col Chelsea. La legge Bosman cambia il calcio, Vialli, con Zola, rompe agli albori dei Blues, il tabù della star italiana del calcio che non riesce ad avere successo all’estero. Sì. Vince anche lì Vialli e diventa un eroe.
La Coppa delle Coppe, la Supercoppa europea, e sfiora pure la Premier League fino al 1999. Da giocatore-allenatore. Altra innovazione della sua carriera. Da manager l’ultima squadra in cui sedette in panchina fu, curiosamente, il Watford, vent’anni fa. Allora, in queste latitudini, era ancora vagamente conosciuto per essere il team preferito da un gigante come Elton John.
Gino Pozzo doveva ancora arrivare. Poi? L’altra cosa per cui Vialli sarà ricordato. Sì, perché per anni in tv a Sky, spesso in coppia con Paolo Rossi, un altro che non c’è più, con cui fece in tempo di far coppia in campo al Mundial del Messico, ha dimostrato come si fa a parlare di calcio, da campioni di razza, con pacatezza, umiltà, competenza.
Dando una lezione di stile agli ululanti commentatori di questi tempi, spesso con un passato da calciatore nemmeno paragonabile ai campioni o nemmeno quello. Poi l’ultimo capolavoro: l’Europeo con la Nazionale.
Quella uscita con le ossa rotte dalla mancata qualificazione ai Mondiali di Russia 2018, quella che ha saputo ricostruire, ripartendo dai giovani, con l’inseparabile amico Mancini (“io e lui un litigio? Una volta alla Samp ci parlammo per interposta persona per tre giorni, l’unico”, disse più o meno così il “Mancio” del gemello) in panchina. Certo, i due avranno ripensato a Boskov, che per la sua Samp partì dal talento e dalla gioventù.
Eccolo allora, all’Europeo post Covid nel 2021, il trionfo. E quell’abbraccio col Mancio. Lacrime di gioia, ripensando a quelle amare versate per la Coppacamoioni sfumata all’ultimo su prato dello stadio imperiale. Lacrime di gioia, pensando alla fatica fatta per dare un calcio al “maledetto”, con la paura che “il maledetto” tornasse.
È tornato, Vialli, ora non ci sei più. Ma la dignità con cui l’hai affrontato quel maledetto e il messaggio di vita, di amore, di fratellanza che ha i lanciato al mondo, non solo del pallone, vale più di qualsiasi trofeo alzato.
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