«Denuncio lo Stato, mi istiga al suicidio»

«Chiedo solo che mi venga restituito il diritto di lavorare».
Quella che segue è la storia di Daniele Giorgino, 55 anni, abitante a Pordenone, dove aveva avviato - anni fa - un’azienda nel settore dei trasporti. Invalido civile al 46 per cento dopo un incidente sul lavoro, oggi chiede che gli venga restituita la dignità e la possibilità di lavorare e di provvedere a se stesso. Per riuscirci si è rivolto alla Federcontribuenti di Padova, che attraverso il presidente Paolo Paccagnella si è detta «pronta a denunciare lo Stato per istigazione al suicidio». La sua battaglia domani sera arriverà a “La Gabbia” di La7.
L’inizio della storia. «Circa 10 anni fa – racconta Giorgino la Guardia di Finanza si presenta a casa mia per farmi alcune domande in merito a un’azienda di Pordenone che opera nel settore degli spurghi e pozzi neri, la Gd Service. Mi chiedono informazioni su alcune fatture di importi elevati, tra i 100 e i 200 mila euro. Spiego loro che la mia unica azienda è nel settore dei trasporti e di non aver mai avuto contatti con questa società». Durante il colloquio i finanzieri delucidano Giorgino sull’azienda di Bari che ha contabilizzato le fatture: «Si trattava della figlia di un imprenditore cui, dieci anni prima, avevo venduto un furgone usato della mia flotta – dice lui –. La compravendita era stata regolare e, dopo allora, non avevo avuto più nessun contatto né con l’uomo né con i suoi dipendenti». Le fiamme gialle mostrano a Giorgino un mandato di perquisizione. «Non mi sono opposto perché non avevo nulla da nascondere - racconta - e infatti i finanzieri non hanno reperito nessun documento che mi collegasse a quelle fatture». Ma la guardia di finanza lo invita in caserma con l’avvocato per continuare la discussione. «Era evidente la mia estraneità: non vi era traccia di alcuna transazione di denaro, nessuna fattura di acquisto di materiale e nemmeno dell’esistenza di questa fantomatica Gd Service».
L’indagine si chiude. Dopo due mesi Giorgino viene chiamato in caserma per firmare i verbali di accertamento. «Ovviamente chiedo ai finanzieri cosa avrei dovuto aspettarmi in futuro, visto che era la prima volta che mi trovavo in una situazione di questo tipo. Mi dicono che il fascicolo della relazione sarebbe stato trasmesso alla Procura della Repubblica, come da prassi». Poco dopo il fascicolo giunge negli uffici dell’Agenzia delle Entrate. «In pochi giorni mi è arrivata una cartella esattoriale di Equitalia che mi intimava al pagamento di poco meno di 3 milioni di euro. Si trattava della somma non corrisposta allo Stato tra Iva, dichiarazioni dei redditi e sanzioni, relative alle fatture di questa Gd Service».
L’inizio dell’incubo. «Viene emesso un decreto ingiuntivo a mio carico di 3.147.000 euro che viene notificato non solo alla mia banca, ma a tutte quelle italiane. Immediatamente mi bloccano la disponibilità residua e il portafoglio clienti. Non ho più un euro e, nell’arco di un anno, perdo anche la mia azienda». Nel frattempo la Procura decide di formalizzare quattro capi d’accusa nei confronti di Giorgino, i primi tre relativi alle false fatture e all’evasione fiscale, il quarto sulla cancellazione dei documenti contabili: «Il processo dura circa sei anni: ho pagato oltre 15 mila euro tra avvocati penalisti, fiscalisti e periti calligrafici per dimostrare la mia estraneità ai fatti. La sentenza di primo grado è assolutoria circa i primi tre capi d’accusa “perché il fatto non sussiste”. Allo stesso tempo, però, mi condannano a sei mesi di reclusione per la distruzione dei documenti comprovanti il reato da cui sono stato assolto. Non potevo credere alle mie orecchie». Della stessa opinione il legale dell’imprenditore, che presenta ricorso in appello fiducioso che, in altra sede, si accorgano dell’incongruenza fra condanna e assoluzione.
Nuova vita, nuovi guai. In attesa della seconda sentenza, avendo perso tutto tra casa e lavoro, Giorgino torna a vivere con i genitori (il padre è invalido al 100 per cento) e trova lavoro come falegname in un’azienda: «Io sono ingegnere e non è stato facile accettare di dover essere assunto come apprendista falegname. Ma non avevo alternative: dovevo vivere e, soprattutto, contribuire alle spese di famiglia, visto che i miei genitori, in due, non arrivano a mille euro di pensione». Giorgino viene assunto con un contratto a termine per 18 mesi, stipendiato a 1.200 euro al mese. Dopo neanche 30 giorni l’invito dei carabinieri a presentarsi in caserma: «Mi comunicano che devo scontare i sei mesi di reclusione. Ho pensato mi venisse un infarto. Il mio legale ha fatto presente che la pena era stata sospesa in attesa del giudizio di secondo grado, ma non c’è stato nulla da fare». Dopo una settimana un’altra comunicazione, questa volta dalla Questura di Pordenone: «I reati fiscali non si scontano in carcere ma ai domiciliari. Mi concedono due ore a settimana per andare a lavorare, così da provvedere a me stesso e ai miei familiari. Una situazione insostenibile». L’uomo, tramite il legale, chiede l’affidamento ai servizi sociali: «Ero fiducioso soprattutto per la situazione dei mie genitori - spiega Giorgino -. Ho fatto un paio di colloqui con l’Uepe di Udine e altrettanti con l’assistente sociale che è anche venuta a casa mia per verificare la situazione in prima persona». Dopo due mesi l’istanza è respinta: «La motivazione era che io non avevo mai riconosciuto la mia colpevolezza e non mi ero mai attivato per risarcire i danni. Ma come potevo riconoscermi colpevole di qualcosa che non avevo fatto?».
Stipendio sotto tiro. Giorgino nel frattempo continua a lavorare. Lo stipendio viene accreditato su un contro “straordinario” concesso alla Bcc pordenonese: «Veniva accreditato il giorno 11 di ogni mese - racconta - ma il 12, andando a fare la spesa, mi viene rifiutato il bancomat». In filiale gli dicono che «è giunto un procedimento esecutivo di pignoramento presso terzi da parte di Equitalia - spiega all’uomo il vice direttore -. Questo prevede il pignoramento di qualunque cifra fosse in conto sino alla cifra di 2.750.000 euro». «Ho dovuto chiedere all’azienda che lo stipendio mi venisse corrisposto mezzo assegno e non tramite bonifico - dice Giorgino -. Loro hanno acconsentito ma i problemi relativi alla mia posizione erano molti. Conclusione, il contratto non mi è stato rinnovato».
Le pretese del Fisco. Ancora una volta a terra, l’uomo si sente solo e in balia di un sistema che, invece di aiutarlo, lo demolisce: «Cercavo una soluzione, ma non riuscivo a pensare ad altro che alle cartelle esattoriali che arrivavano con scadenza quasi giornaliera nella mia cassetta della posta. Si parlava di milioni di euro: impossibile trovare una via d’uscita». Se non quella suggerita dai funzionari di Equitalia: «Diecimila euro al mese per 36 anni, oppure, a stralcio, il 25 per cento delle cartelle in essere, più o meno 800 mila da versare immediatamente in contanti. Se non fosse una vergogna ci sarebbe da ridere». Si arriva al 4 luglio 2013 quando, in tribunale, pronunciano la sentenza di secondo grado: «Il procuratore generale aveva chiesto un inasprimento della pena a 18 mesi di reclusione, il mio avvocato la piena assoluzione. La Corte di Appello decide per una mediazione, confermando la pena già scontata». Sulle sue spalle, però, restano le cartelle esattoriali di un fatto giudicato per due volte come “mai accaduto” e una vita rovinata. «Mi hanno rovinato la vita in passato e Equitalia lo farà in futuro. Ci sono persone che si sono suicidate per molto meno. Io no, voglio combattere. Anche se so che a vincere sarà il sistema: nella Bibbia Davide vince contro Golia, nella Repubblica Italiana vince sempre Golia. Il mio desiderio è solo quello che la gente capisca che i veri delinquenti non sono sempre quelli che stanno dietro le sbarre. Ce ne sono molti più pericolosi in libertà, dietro a una scrivania».
Le richieste di Federcontribuenti. «Questa è una palese istigazione al suicidio - dice Marco Paccagnella, presidente di Federcontribuenti -. Faremo un tentativo bonario con l’Agenzia delle Entrate e chiederemo un incontro al ministero delle Finanze. Siamo pronti a denunciare lo Stato. Il sistema è sempre dalla parte di se stesso e mai da quella dei cittadini e il caso di Daniele Giorgino lo dimostra. Chiediamo che le persone complici di questa disgustosa vicenda si rendano responsabili dei danni esistenziali provocati a questo imprenditore e alla sua famiglia».
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