De Monte: va rivisto il modello della sanità del Fvg, ecco come

Per comprendere come è nata la necessità di istituire all’interno dei nostri ospedali i reparti di terapia intensiva, bisogna risalire ai tempi di diffusione della poliomielite, malattia virale che determina la paralisi di uno o più muscoli.
Quando i muscoli interessati dalla paralisi sono quelli del respiro, l’attività respiratoria deve essere supportata con ausili esterni altrimenti la persona muore per asfissia. Il primo sistema meccanico ad essere utilizzato per supportare questi pazienti, generalmente bambini, fu il polmone d’acciaio, macchinario costituito da un grosso cilindro di metallo all’interno del quale veniva chiuso il paziente, consentendogli solo la fuoriuscita della testa da una estremità.
All’interno del cilindro, una pompa creava a ciclo continuo una pressione negativa alternata ad una positiva; determinando così l’espansione e il rilassamento alternato del torace e dei polmoni del paziente dando così origine ad una respirazione passiva in grado di garantire l’ossigenazione del sangue. Questo strumento fu utilizzato su larga scala a partire dal 1937, ma il costo, le dimensioni e le necessità logistiche ne consentiva un impiego molto limitato. Si calcola che, nel periodo di suo massimo utilizzo, in tutti gli Stati Uniti vi fossero in funzione 1200 polmoni d’acciaio.
Nel 1953, vi fu lo scoppio di una grave epidemia di poliomielite che sconvolse il mondo. La malattia si diffuse anche a Copenaghen dove raggiunse un tasso di mortalità pari al 90%, soprattutto fra i bambini che ne venivano colpiti.
Un anestesista, Bjorn Ibsen, ebbe l’intuizione di introdurre, mediante la tracheotomia, un tubo all’interno della loro trachea per aiutarli a respirare per un periodo prolungato. A quel tempo non esistevano i respiratori artificiali e pertanto, per affrontare l’emergenza furono arruolati anestesisti in pensione, 1600 studenti di medicina, e 600 infermieri che, utilizzando dei palloni collegati a una fonte di ossigeno, ventilarono manualmente i pazienti per 165.000 ore (l’equivalente di quasi 19 anni!), riducendo la mortalità dal 90% al 25% dei soggetti contagiati.
Paradossalmente oggi, a distanza di quasi 70 anni dall’apertura della prima terapia intensiva, ci siamo trovati a fronteggiare una situazione similare, sia per quanto riguarda le analogie cliniche, sia per l’insufficienza di risorse necessarie per rispondere alle necessità imposte dall’emergenza.
Pur con altri meccanismi fisiopatologici, anche i pazienti infettati da Covid 19 presentano gravissime problematiche respiratorie che richiedono l’impiego di un supporto respiratorio avanzato.
Mentre al tempo di Ibsen i respiratori artificiali non esistevano, oggi possiamo usufruire di apparecchiature sofisticate, tecnicamente molto avanzate, ed in grado di supportare automaticamente la funzione respiratoria per tempi lunghissimi. Ma come allora, la capacità di risposta del sistema è risultata non essere all’altezza delle esigenze imposte dall’emergenza pandemica.
È innegabile che la carenza di posti letto di terapia intensiva abbia influito sul numero dei decessi che si sono verificati a seguito dell’impossibilità di dare assistenza alla moltitudine di pazienti che simultaneamente venivano attaccati dal virus.
Per porre rimedio a questa carenza, una delle prime manovre del Governo per fronteggiare la crisi è stata quella di emanare delle disposizioni alle Regioni interessate maggiormente dall’epidemia, per aumentare del 50% la disponibilità del numero dei posti letto intensivi. È questa però una manovra non attuabile in tempo reale dall’oggi al domani per le motivazioni che saranno di seguito dettagliate.
Per attivare dei posti di terapia intensiva infatti, non basta limitarsi a reperire monitor, pompe infusionali, respiratori artificiali e letti con particolari prestazioni di manovrabilità, ma vi è anche la necessità di affiancare tutta una serie di supporti tecnici quali ad esempio una logistica completamente diversa da quella di un semplice reparto, ma soprattutto è richiesta la presenza di medici specialisti in Anestesia e Rianimazione ed infermieri adeguatamente preparati e con competenze specifiche.
Nella nostra Regione, l’assessorato alla Salute e Protezione civile ha avviato fin da subito un piano che ha previsto in una prima fase l’attivazione di 90 posti di terapia intensiva dedicati ai pazienti Covid presso gli ospedali di Udine, Trieste, Pordenone, Gorizia e Palmanova; individuando anche la possibilità di una ulteriore espansione massimale fino a 150 posti nel caso in cui la situazione avesse assunto dimensioni disastrose.
Questa scelta di fatto, si è rivelata assolutamente tempestiva e vincente in quanto, insieme alle altre manovre contenitive di prevenzione, ci ha consentito non solo di far fronte a tutta la domanda della popolazione regionale, ma ci ha anche permesso di accogliere pazienti provenienti dalla Lombardia.
L’insufficiente dotazione di posti letto intensivi rispetto a quelli richiesti non ha interessato solamente l’Italia ma è stato, e tuttora continua ad essere, un problema che coinvolge tutte le nazioni. La situazione drammatica che si è delineata, ha messo in discussione su scala mondiale alcuni aspetti organizzativi fondamentali delle organizzazioni sanitarie che non possono ora essere ignorati.
Si impone un ripensamento globale degli assetti da modificare e le priorità che i sistemi sanitari dovranno garantire a difesa della salute della popolazione, sia che si tratti di eventi pandemici come quello attuale, sia di tematiche legate all’applicazione delle cure.
L’attuale piano di potenziamento della rete delle terapie intensive stilato dal Governo, che si pone come obiettivo l’attivazione di 5.000 nuovi posti letto intensivi, prevede degli investimenti senza precedenti in questo campo. La realizzazione di questo progetto necessariamente avverrà però con una tempistica di medio periodo in quanto per attivare nuovi posti letto di terapia intensiva non basta solo la disponibilità economico-finanziaria, ma è necessario anche soddisfare i seguenti quattro fondamentali capisaldi: logistico-strutturale, tecnologico-impiantistico, informatico e soprattutto quello formativo del personale specialistico.
Economico/Finanziario
Si stima che il costo per acquisire la strumentazione necessaria ad attrezzare un posto letto di terapia intensiva, completo anche della strumentazione ausiliaria di strumenti diagnostico-terapeutici condivisi come ecografi, broncoscopi, macchine da dialisi, ecc., si aggiri intorno ai 70-80.000 euro.
L’obiettivo del governo quindi di attivare 5.000 posti letto su scala nazionale, deve prevedere una copertura finanziaria di almeno 400 milioni di euro ai valori attuali di mercato. Rapportati alla nostra Regione, dove il numero di posti letto necessari per l’espansione prevista è di 50 posti, il costo previsto per la sola dotazione tecnologica si aggira attorno ai 4 milioni di euro. A questi costi si devono necessariamente sommare quelli di costruzione o adeguamento edilizio.
Logistico-strutturale
Aspetto critico che coinvolge tutta la tematica dell’edilizia ospedaliera. Premesso che la terapia intensiva deve necessariamente essere allocata all’interno di un ospedale, date le grosse necessità di supporto specialistico e di diagnosi e terapie strumentali che necessita, è opportuno precisare che i locali dove allocare i posti letto intensivi, hanno delle caratteristiche ben diverse da quelle di un normale reparto di degenza.
Richiedono particolari esigenze di spazio per permettere la movimentazione intorno al letto del paziente e per consentire lo stazionamento di tutta la strumentazione necessaria al trattamento ed al monitoraggio clinico.
In una logica di corretto investimento e programmazione, postazioni con queste caratteristiche non possono certamente essere tenute in stand-by in attesa di essere utilizzate solamente in caso di necessità.
Ecco che allora, è necessario individuare dei “meccanismi flessibili” di impiego di questi posti letto, in modo da poterli utilizzare sì in caso di emergenza sanitaria, ma che abbiano anche un ruolo di supporto all’attività sanitaria durante le situazioni di normalità.
Ovviamente è richiesta una visione trasversale dipartimentale di impiego delle risorse che superino le rigide suddivisioni legate all’appartenenza ad una o ad un’altra specialità. Questa soluzione è stata sperimentata presso l’ospedale di Udine proprio in occasione dell’emergenza Covid, dove alcuni posti letto individuati come facenti parte di una possibile espansione per la terapia intensiva sono stati utilizzati nel frattempo dagli pneumologi per trattare i pazienti dimessi dalla rianimazione, ma pronti ad essere convertiti in veri posti di terapia intensiva qualora ve ne fosse stata la necessità.
Tecnologico/impiantistico
L’emergenza Covid ha portato a conoscenza del grande pubblico l’esistenza e il ruolo del ventilatore artificiale, diffondendo l’erronea convinzione che fosse questa l’unica discriminate tra un normale letto di degenza ed un letto di terapia intensiva.
Al contrario, per attivare dei posti di terapia intensiva sono necessarie altre strumentazioni sofisticate come monitor, pompe infusionali, letti con particolari prestazioni di manovrabilità, oltre ad una impiantistica particolare soprattutto per quanto riguarda filtraggio e trattamento dell’aria, il cui costo va ad aggiungersi a quello della dotazione strumentale e delle opere edilizie.
Informatizzazione
Sembrerebbe superfluo sottolineare il ruolo del supporto informatico in un’era come quella in cui stiamo vivendo, ma purtroppo anche in questo campo possiamo trovare forti analogie con la realtà vissuta da Ibsen nel 1953, e cioè che nella maggior parte delle Terapie Intensive, la registrazione dei parametri, le note cliniche, gli esami diagnostici, sono tutt’oggi ancora riportati nella cartella clinica del paziente in maniera manuale. E’ questo un aspetto che non dovrebbe essere più accettabile nell’epoca in cui viviamo, per almeno 3 importanti motivazioni.
La prima è lo spreco di tempo ed attenzione nel trascrivere i dati provenienti dalle strumentazioni medicali e degli esami su carta. Si calcola che mediamente ci siano tra le 400 e le 500 annotazioni che ogni giorno vengono effettuate sulla grafica di ogni singolo paziente, distogliendo tempo medico ed infermieristico dall’assistenza diretta.
La seconda riguarda la difficoltà di mantenere la visione d’insieme dell’evoluzione clinica del paziente nell’arco della sua degenza, legata alla difficoltà di collegare e mantenere tracciabile tutta l’evoluzione clinica.
La terza motivazione, ma non la meno importante, concerne il rischio di errore umano imputabile alla trascrizione manuale dei dati e anche durante l’interpretazione del dato stesso.
La formazione del personale specialistico
Durante l’emergenza vi è stata sì la carenza di dispositivi di protezione individuale, ma vi è stata anche la scarsità di personale specialistico da impiegare nelle terapie intensive.
La mancanza di medici, soprattutto di Anestesisti Rianimatori e di specialisti in Medicina d’Urgenza, ha spinto il ministero della Salute ad emanare dei provvedimenti d’urgenza con cui si autorizzava eccezionalmente a bandire concorsi per assumere ed impiegare per l’assistenza, medici specializzandi iscritti al 5°, 4° ed addirittura al 3° anno di corso.
A colpi di decreto venivano pertanto equiparati a medici specialisti, dopo soli due anni di frequenza, giovani medici che stavano frequentando un corso programmato per preparali in 5 anni, caricandoli di una enorme responsabilità a cui certamente non erano pronti.
Anche la tematica del personale infermieristico presenta delle incongruenze, che sono state evidenziate durante il periodo emergenziale. Criticità che hanno coinvolto anche in questo caso le Terapie Intensive e i Pronto Soccorso.
Per chi lavora in questi reparti viene richiesta una preparazione specialistica che la facoltà di Scienze Infermieristiche al momento non fornisce. Il corso di laurea dura tre anni, ma alla fine dell’iter formativo il neo infermiere ha certamente una preparazione teorica e culturale generale superiore a quella che avevano le precedenti generazioni, ma non è minimamente pronto a lavorare in ambiti specialistici come le Terapie Intensive, le sale operatorie, la dialisi, ecc..
Ne consegue che sono necessari ulteriori 6-12 mesi di lavoro affiancato, per acquisire le competenze necessarie che ne consentano un adeguata e sicura autonomia lavorativa. Non sono fautore dell’introduzione di allungamenti del corso di laurea per raggiungere la specializzazione; molto più logico sarebbe la modifica del piano di studi che preveda invece un indirizzo specialistico nel corso dell’ultimo semestre del corso di laurea.
La pandemia Covid ha di fatto sconvolto l’ordine mondiale in un lasso di tempo di una brevità impressionante. C’è chi la definisce una vera e propria terza guerra mondiale. A differenza delle altre guerre però, le nazioni non sono attualmente in lotta fra loro ma sono tutte sotto attacco di un nemico che non conosce confini.
È sotto gli occhi di tutti ciò che sta accadendo in campo politico, economico, sociale. La situazione mondiale indica chiaramente, e inevitabilmente, che vi sarà un prima e dopo Covid in tutti i settori, e questo interesserà inevitabilmente anche quello della formazione.
Per quanto riguarda l’ambito sanitario, la domanda sorge spontanea: l’Università come Istituzione, sta rivedendo i percorsi di formazione in modo da rispondere adeguatamente alle esigenze imposte da questi cambiamenti radicali della domanda di salute?
Magari allineandosi a quanto già avviene negli altri Paesi dove la compenetrazione tra mondo Universitario ed ospedaliero è assai più sviluppata e collaborativa e la formazione specialistica teorica e pratica è più intensa grazie anche al coinvolgimento ed all’esistenza degli ospedali di insegnamento, con il conseguente ingresso più precoce e più autonomo nel mondo del lavoro. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto