Danieli negli Emirati: nessuna maxi tangente

Udine, archiviata l’accusa di corruzione internazionale contestata al presidente e ad altri due manager per la costruzione di un’acciaieria

UDINE. Per ottenere il mega appalto che le consentì di costruire un complesso siderurgico negli Emirati Arabi Uniti, Danieli si avvalse della sponsorizzazione locale di faccendieri vicini alla committente, versando rilevanti somme di denaro per la loro attività di intermediazione.

Uno su tutti, il principe libanese Omar Bassam Salamé. Da qui a parlare di corruzione internazionale, tuttavia, ce ne passa. Perchè nè lui, nè gli altri facilitatori che la multinazionale di Buttrio pagò tra il 2006 e il 2009 rivestivano la qualifica di pubblici ufficiali.

E perchè due anni e mezzo di indagini non sono bastate a documentare alcun successivo trasferimento di denaro a favore della Ghc (ora Senaat) - la committente, appunto -, società a totale capitale pubblico. Nelle mani, cioè, della famiglia reale.

È sulla base di queste considerazioni che la Procura di Udine ha chiesto e ottenuto dal gip l’archiviazione del procedimento che aveva ipotizzato a carico di Giampietro Benedetti, allora presidente di Danieli, Marco Alzetta, amministratore delegato, e Alessandro Brussi, tesoriere, il reato di corruzione internazionale realizzata attingendo ai presunti «fondi occulti» costituiti per oliare «soggetti terzi esteri» grazie alle fatture emesse dalla “Otc - Oriental tachnical contracting co wll” di Abu Dhabi, a fronte di operazioni ritenute inesistenti. Una presunta riserva di denaro, insomma, per un totale di 13.327.509,92 euro in poco più di tre anni.

La vicenda era stata stralciata dall’inchiesta madre, relativa alle accuse di frode fiscale per un ammontare di 281 milioni di euro e della relativa evasione di imposte per 80 milioni, rimanendo ancorata alle indagini preliminari anche quando il filone principale era ormai approdato davanti al giudice dibattimentale.

La notizia dell’archiviazione è arrivata con il deposito del relativo decreto nel corso di quella che - dopo il cambio del giudicante - è stata di fatto la prima udienza del processo per frode nei confronti dello stesso Benedetti e di altri sei manager di Danieli.

Udienza che il giudice Mariarosa Persico ha rinviato al 20 aprile, riservandosi la decisione sulle eccezioni sollevate dall’avvocato Maurizio Miculan e dal professor Tullio Padovani, difensori di tutti gli imputati, rispetto alla richiesta del procuratore aggiunto, Raffaele Tito, di acquisizione delle rogatorie internazionali effettuate a Hong Kong e Singapore proprio per capire dove fossero andati a finire i soldi consegnati a Otc.

Secondo i legali, gli atti risultano inutilizzabili, per tardività delle rogatorie, chieste a termini di indagini scaduti, e violazione della normativa che ne prevede l’utilizzo limitatamente ai reati per i quali sono state chieste.

Quel che è certo, intanto, è che nel processo non si parlerà più di tangenti. «Nei Paesi mediorientali – aveva ricordato nella propria memoria l’avvocato Miculan – lo sponsor è una figura non soltanto normale, ma anche normata».

A insospettire i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Udine, dopo il ritrovamento di un file durante le perquisizioni a Buttrio, era stata la presunta triangolazione tra Danieli e due fratelli di Abu Dhabi referenti, rispettivamente, della Ghc e della Otc.

Ritenendo fittizio il subappalto sottoscritto dal gruppo friulano con Otc, gli investigatori avevano cercato di dimostrare come le sue fatture avessero il solo scopo di creare fondi occulti che un fratello avrebbe poi retrocesso, almeno in parte, all’altro, consigliere della committente pubblica Ghc, per garantire a Danieli il contratto da 745 milioni di dollari per la costruzione dell’acciaieria.

Concordando con le memorie della difesa e le conclusioni del pm, anche il gip Emanuele Lazzàro ha evidenziato sia l’assenza di una prova diretta della consegna di denaro al fratello di Ghc, sia l’impossibilità di attribuirgli funzioni corrispondenti a quelle di pubblico ufficiale necessarie a integrare l’ipotesi della corruzione internazionale.

Un po’ come avvenne nel processo Enelpower, dove fu «esclusa la rilevanza pubblica degli appalti in Libia, proprio perchè non caratterizzati da alcuna procedura a evidenza pubblica». E tenendo ben presente come nel sistema giuridico arabo, l’attività di lobbying contempli appunto «intermediazioni, pressioni, influenze e favoritismi».

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