Dalla Zanussi agli svedesi Il tramonto dell’impero

I prodromi del colosso del bianco nel 1919 in una officina di corso Garibaldi. Il salto di qualità con l’avvento di Lino. Fabbrica-comunità incubatore d’imprese

PODENONE. E’ nel 1916 che Antonio Zanussi, in Corso Garibaldi a Pordenone, fonda l’Officina Fumisteria Antonio Zanussi. Una stanza da 30 met1ri quadrati in cui dispiega il «solo capitale del suo ingegno».

Nel 1920 l’azienda produce il primo modello standard di cucina a legna, la Azp. I dipendenti salgono da 3 a 10

Nel 1926 la Zanussi esce dalla dimensione artigianale, gli spazi della bottega passano da 30 a 120, i dipendenti sono 22 a cui si somma un’impiegata.

Nel 1933 arriva il marchio Rex e nel ’34 Antonio Zanussi costruisce in via Montereale uno stabilimento da 2 mila metri quadrati. 40 i dipendenti tra cui i giovanissimi figli Lino e Guido. Nel ’38 la produzione di stufe raggiunge le 6 mila apparecchiature, i dipendenti arrivano al centinaio.

Antonio Zanussi muore il 21 novembre del 1946 e l’azienda passa nelle mani dei figli, in particolare in quelle di Lino. Cresce ancora la Zanussi che nel ’48 estende l’area a 4 mila metri quadrati con 250 addetti.

Nel ’51 la Zanussi non produce più solo cucine a legna ma si estende a quelle a gas. Compare il primo modello di fornello a gas. La sede passa da Pordenone a Porcia.

L’espansione dell’azienda è inarrestabile, alla metà degli anni ’50 a Porcia lo stabilimento è di 5 mila metri quadrati, ben 700 i dipendenti. Si iniziano a studiare le lavatrici americane per realizzare un prodotto specifico per il mercato italiano; oltre alla cottura ci si occupa anche del freddo con i primi frigoriferi.

Nel 1960 le esportazioni Zanussi toccano oltre 70 Paesi; è realtà anche lo stabilimento di Vallenoncello per il settore professionale, e 5 sono gli stabilimenti con poco meno di 3 mila addetti.

L’8 giugno 1968 Lino Zanussi scompare in un incidente aereo a San Sebastian in Spagna insieme ad Alfio Di Vora, vicedirettore generale e due manager della Ibelsa, la consociata spagnola della Zanussi. In quell’anno gli stabilimenti sono 13, gli occupati superano i 13 mila addetti, le esportazioni sono un terzo del fatturato.

Dal ’68 all’83 è Lamberto Mazza a tenere le redini dell’azienda e sotto la sua guida la Zanussi cresce in modo esponenziale acquisendo società, non sempre in ottime condizioni, e operanti in vari settori. Tra queste la Zoppas di Conegliano, la Triplex di Solaro, la Ducati di Bologna... Nel ’76 i dipendenti superano le 31 mila unità, ma insieme ad essi, e agli stabilimenti, sale anche l’indebitamento.

Negli anni 80 vengono acquisite, tra le altre, la ceramica Galvani, la Cariera Calgani, l’Ilpea Gomma, non dimenticando l’Udinese calcio. Cresce anche all’estero, acquisendo il controllo della spagnola Ibelsa.

Nel 1981 la Zanussi produce oltre un milione e mezzo di frigoriferi, 500 mila congelatori, 500 cucine, 200 mila televisori (non va dimenticata la controllata Seleco...). Da sola nel settore del bianco, realizza circa il 30% della produzione nazionale di cui più del 50% venduta all’estero.

Complessivamente sono 28 le società industriali, di cui 5 in altri Paesi, e diverse le consociate commerciali. Circa 31 mila i lavoratori ripartiti in 50 stabilimenti i 17 province italiane e 2 spagnole. La Zanussi detiene, in quegli anni, il 14% del mercato europeo dell’elettrodomestico.

Il colosso ha, però, i piedi d’argilla: evidenzia un indebitamento difficilmente aggredibile, e i conti sono stabilmente in perdita. Il nuovo cda che segna l’uscita di scena di Mazza, avvia una fase di tagli, nel 1983 gli stabilimenti scendono a 39, arrivano i primi licenziamenti. Ma non basta. A un passo dal fallimento nel 1984 la Zanussi viene ceduta all’Electrolux. Imponente il piano di ristrutturazione che viene gestito con strumenti soft e che fa dimagrire il gruppo di oltre 5.500 persone.

Con l’operazione Zanussi, la tutto sommato modesta azienda svedese diventa il primo produttore europeo, se non mondiale, di elettrodomestici.

La Zanussi-Electrolux completa nel volgere di non molti anni il piano di risanamento, si consolida nella leadership del settore e “inventa” un sistema di relazioni industriali che diventa modello innovativo in Italia.

E’ della metà degli anni 90 l’acquisto del principale produttore ungherese di frigoriferi, la Lehel, e nella stessa zona Electrolux insedia ex novo uno stabilimento di compressori. E’ l’inizio della delocalizzazione. Nel ’96 infatti il gruppo annuncia un piano di ristrutturazione mondiale con 12 mila esuberi: prima vittima, uno stabilimento danese di frigoriferi.

Nel ’97 la “competizione” tra stabilimenti tocca l’Italia. A gara Porcia e Alingsas (Svezia). Vincono i pordenonesi grazie ad un accordo di stabilimento che, tra le altre cose, concede all’azienda 96 ore di flessibilità esigibile, istituisce il salario d’ingresso, interviene sull’organizzazione del lavoro per realizzare significativi recuperi di efficienza.

Il piano del ’97 di Michael “la lama” Treschow, ceo di Electrolux, si conclude in un paio d’anni comportando la chiusura di 25 fabbriche e 50 magazzini in tutto il mondo.

Con il nuovo millennio l’Est Europa inizia ad esercitare una forte attrazione sui grandi produttori, e non solo di elettrodomestici: basso costo del lavoro, normative ambientali inesistenti, burocrazia superabile, apparati statali compiacenti, scarsa sindacalizzazione. E, ovviamente, nuovi potenziali mercati.

Decolla un progetto di espansione ad Est che prevede un nuovo stabilimento in Ungheria per i frigoriferi, uno in Russia e uno in Polonia per le lavatrici. Proprio in Polonia andrà la “fabbrica sulle ruote” di asciugabiancheria, arrivata da Norimberga a Porcia e poi spostata a Est.

Nel 2005 l’allora presidente di Electrolux Hans Stråberg lancia l’offensiva annunciando che, entro il 2008, metà della capacità produttiva del gruppo insediata nelle aree ad alto costo, dovrà essere spostata in quelle low cost (al momento Electrolux ha 43 stabilimenti di elettrodomestici di cui 16 nei paesi a basso costo)

Nel 2008, e per la prima volta dall’acquisizione dell’impero Zanussi, Electrolux si appresta a chiudere uno stabilimento in Italia. E’ la fabbrica di frigoriferi di Scandicci che l’investigazione lanciata dalla multinazionale “sacrifica” in nome della competitività. 700 i lavoratori coinvolti.

Passando di riorganizzazione in ristrutturazione, Electrolux in Italia mantiene 4 stabilimenti nell’elettrodomestico: Porcia (lavatrici), Susegana (frigoriferi), Solaro (lavastoviglie), Forlì (forni e piani cottura). Merito della caparbietà del management italiano che riesce ad ottenere da Stoccolma gli investimenti necessari a mantenere le fabbriche competitive, e merito di lavoratori e sindacati che contrattano recuperi di produttività e di efficienza con incrementi, anno su anno, a due cifre. Nonostante ciò il dimagrimento degli organici, causato anche dalla flessione dei volumi, è stato importante dal 2008 a oggi. L’ultima riorganizzazione pesa per circa 600 esuberi nel gruppo (300 solo a Porcia), in parte (minima) accompagnati dal piano sociale di Electrolux che ha messo sul tavolo incentivi all’esodo, all’autoimprenditorialità, alla ricollocazione, e soprattutto gestiti con la cassa integrazione, i contratti di solidarietà e l’orario ridotto a 6 ore.

E arriviamo ai giorni nostri, 25 ottobre 2013, con il drammatico annuncio da Stoccolma.

Difficile condensare in pillole quasi un secolo di storia, e soprattutto l’evoluzione del settore dell’elettrodomestico nei vari decenni, la caduta del muro di Berlino che ha determinato l’avvio di vera rivoluzione in Europa, la crescita esponenziale dei Paesi emergenti, sia come produttori che come mercati, l’approdo degli asiatici sul mercato occidentale, la competizione sul costo del lavoro (e non solo), la concorrenza sleale e quella agguerrita, le politiche industriali, e nel caso dell’Italia la loro assenza, le regole ambigue della Ue, che da un lato impone vincoli stringenti a chi produce qui, ma consente l’importazione di prodotti senza controlli...

Ora siamo all’ultimo baluardo: l’elettrodomestico è un settore strategico per l’Italia? Se la risposta è sì, allora servono regole nuove, politiche vere, condizioni competitive da ridefinire, e magari non solo per questo settore. Se la risposta è sì, ricordando l’antico slogan della Rex, allora occorrono “Fatti, non parole...”.

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