Da manager a skipper nel Pacifico

Saverio Scelzo, presidente di una finanziaria, sulla rotta Ecuador-Polinesia
«Buon vento». È così che si dice a chi sta per prendere il mare, per avventurarsi in un viaggio che è soprattutto sfida con se stessi. E l’augurio di un buon vento arriva proprio oggi, da parte di amici e conoscenti, a Saverio Scelzo, 51 anni, udinese, fondatore e presidente della finanziaria Copernico Sim, che ha scelto il 3 giugno come data di partenza dal porto di Salinas, in Ecuador, per attraversare l’Oceano Pacifico in barca a vela. Il programma, ambizioso e con pochi precedenti, prevede una prima tappa alle isole Marchesi, per poi proseguire fino a Papeete, arcipelago polinesiano. Tempo previsto: un mese e mezzo. Assieme a lui ci sono il figlio, Gianluca, di 25 anni, e l’amico Renzo Zandegiacomo, di Auronzo, già campione di slalom gigante.


La prima domanda è scontata: come è nata la passione per la navigazione?

«Ce l’ho fin da ragazzino, quando a Lignano guardavo con invidia le imbarcazioni ormeggiate in darsena. Da adulto, poi, ho avuto la fortuna di navigare parecchio, ma limitandomi all’Alto Adriatico, non oltre la Dalmazia benchè, a ogni partenza da Monfalcone, annunciassi a voce alta: rotta Gibilterra!».


E quando si è avventurato nella prima autentica traversata?

«Nel ’99. Ho dapprima raggiunto la Sicilia, dove ho lasciato la barca per rientrare al lavoro perchè proprio in quei giorni si apriva la Copernico Sim. Successivamente l’ho ripresa e sono arrivato, appunto, fino allo Stretto di Gibilterra. Ritorno a Udine, cambio di equipaggio (prima ero con mia moglie e un amico, che sono rientrati), quindi due mesi fino alle Canarie. Da lì, successivamente, ho preso l’Atlantico puntato su Martinica, raggiunta in 18 giorni. Il giro del mondo io lo faccio a tappe».


A quale imbarcazione si affida?

«Si chiama Cold stream, una “47 piedi” realizzata a Venezia dal grande architetto triestino Carlo Sciarelli, da poco scomparso».


È mai capitato qualcosa di grave che le abbia fatto temere per la sua vita?

«Non è mai accaduto che sia andato tutto liscio. È una regola: si rompe sempre qualcosa. Il momento più difficile è stato in una notte del 2005 quando, a 40 miglia al largo di Cartagena, in Colombia, mi è caduto in testa il boma, l’asta che sorregge la vela. Sono svenuto, cadendo per mia fortuna all’interno della barca. Da allora ho perso l’uso della mano destra. Ma questa menomazione non mi ha impedito di fare una settimana in solitario verso le Galapagos».


Tempeste?

«Partito dalle Bahamas, ho evitato solo per qualche giorno l’uragano Charlie e poi mi sono ritrovato col motore in panne tra Cuba e Haiti, proprio mentre stava arrivando la tempesta tropicale. Ho portato la barca sotto il 20º parallelo, dove il rischio-uragano era inferiore, e solo con enorme fatica sono riuscito a salvare Mustafà, il timone a vento».


E in solitario quali sensazioni si provano?

«Beh, tanto per cominciare, non puoi permetterti di dormire più di 20-25 minuti. E non puoi mai calare la concentrazione. Quello che avverti è un senso di isolamento, che non è senso di solitudine. Premesso che io non mi sento un professionista ma solo un grande appassionato, quello che amo è scrutare l’orizzonte al tramonto cercando di individuare il raggio verde, quella condizione unica che si può apprezzare dal mare solo quando si naviga verso ovest e in cui il sole crea, appunto un raggio verde. Sono riuscito a captarlo una sola volta, sull’Atlantico. E poi, le notti sull’Oceano sono qualcosa di straordinario. Non si possono descrivere».


Perchè uno decide di misurarsi in queste imprese estreme?

«Per una sfida con se stessi. A bordo di una barca a vela si avverte davvero a fondo la navigazione come metafora della vita. Il problema non è avere delle difficoltà, è saperle superare».


La stessa preparazione dev’essere scrupolosa.

«Le condizioni psicofisiche sono determinati. Come determinante è il rispetto per gli altri e per i ruoi di ciascuno. Tutto dev’essere calcolato al millimetro. Si parte con una scorta di acqua e il necessario per desalinizzare e poter cucinare anche in barca. Non possono mancare morfina, adrenalina e antibiotici. Una frattura al femore può significare morire. Perchè se sei in mezzo all’Oceano, nessuno ti viene a prendere».


Esiste un modo per comunicare?

«I contatti con il mondo sono in qualche modo possibili via radio e con telefono satellitare. C’è una comunità di barcaioli con cui ci si scambia numerose esperienze, a volte importantissime per la sopravvivenza. E ci sono anche le frequenze radio pirata».


Ha potuto incontrare popolazioni indigene?

«Sì, diverse. Quello che mi è rimasta più impressa è la comunità di Kunyal, 80 mila persone che vivono nelle isole a est di Panama, incapaci di leggere e scrivere e la cui organizzazione sociale è oggetto di studi antropologici».


Le capita di sentirsi spiritualmente vicino ai grandi navigatori della storia, a cominciare da Cristoforo Colombo, le sue frustrazioni, le sue attese...

«Sempre. C’è un feeling continuo che travalica secoli, conoscenze e conquiste tecniche. Durante i turni di guardia, poi, si legge moltissimo sul genere. Il viaggio che ci attende sarà sulle orme del capitano Cook».


È vero che la prima tappa dell’attuale viaggio è particolarmente insidiosa?

«Da Salinas alle Marchesi sono 3.600 miglia, un tratto mai percorso dalle navi container, e per la cui navigazione è necessario seguire una rotta precisa in base alle correnti».


Dunque...

«Dunque, buon vento».

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