Da cancelliere ad amico dei lebbrosi

Daniele Sipione viaggia da 40 anni per aiutare chi soffre della malattia
Registrare atti, controllare la stesura delle sentenze, apporre timbri, sentire la responsabilità dell'Ufficio di sorveglianza di un palazzo di giustizia. Tutto questo è stato per decenni la vita lavorativa di Daniele Sipione, 77 anni, siciliano, ex cancelliere al Tribunale di Udine. Un lavoro svolto con coscienza, ma “disturbato” da un piccolo tarlo che rodeva dentro e gli “diceva” che doveva fare qualcos'altro. «Io ho dato ascolto a questa provocazione», racconta lui spiegando come, chiesto il prepensionamento, ha reso concreta l'aspirazione alla solidarietà facendo nascere in città, siamo nel 1968, l'associazione “I nostri amici lebbrosi”, diventata oggi una delle più conosciute Organizzazioni non governative che ogni anno destina milioni di euro per i poveri del mondo. Aiuti che è lo stesso fondatore a consegnare muovendosi dall'India alle Filippine, dall'Armenia, al Kenia all'America Latina nel corso di viaggi che lo hanno portato, tra l'altro, a incontrare per ben 19 volte madre Teresa di Calcutta. Una vicenda straordinaria iniziata dedicando ai popoli che hanno fame vacanze e week-end. Dottor Sipione, come si spiega la svolta che ha dato alla sua vita quasi 40 anni fa e che ha portato alla creazione di questo organismo riconosciuto a livello internazionale? «Ritengo che alla base ci sia stata un'esperienza accadutami quando ero ragazzino che mi ha fatto percepire una sorta di vocazione a fare del bene.


Avevo 13 anni e nel mio paese, Rosolini, in provincia di Siracusa, erano sbarcate le truppe alleate che combattevano i nazifascisti: migliaia di soldati sbandati e in cerca di cibo nelle campagne. Ho cominciato a bussare a tutte le case e mi sono ritrovato in mano, oltre a viveri e indumenti, ben 320 lire, un capitale allora!». Eppure non ha deciso di abbracciare la vita religiosa o comunque di impegnarsi in modo totale in questa direzione. Come mai? «Credo che Dio abbia un preciso disegno per tutti gli uomini. Nel mio caso mi ha voluto laico; ho moglie, tre figli e due splendidi nipoti. La mia condizione mi ha sicuramente dato dei vantaggi per questa attività, anche se è innegabile che non è stato sempre facile sottrarre tempo, soldi ed energie alla famiglia. Diciamo che ho trovato comprensione». Veniamo allora a quanto le è accaduto nel 1967, anno in cui è cominciata la storia di questo formidabile impegno. «È scattata in me una molla quando ho letto su una rivista, dal barbiere, la storia di un industriale milanese che aveva deciso di vendere le sue fabbriche per dedicare la sua vita al servizio dei lebbrosi. Mi sono detto: perchè io no? E ho cominciato a chiedere qualche aiuto ad amici e conoscenti qui a Udine e in Sicilia». Una “catena d'amore”, come la chiama lei, che si è man mano ingrossata. Si può dire che i friulani siano sensibili e generosi? «Molto. Possiamo contare sulla sensibilità di famiglie, enti e aziende non solo di Udine e del Friuli, ma di tutta Italia e anche dall'estero. Importante, per chi dona, è vedere che gli aiuti arrivano sul posto per il quale sono stati destinati e in base a un concetto di cui sono sempre stato convintissimo: no all'assistenzialismo fine a se stesso, sì invece alla creazione di strutture che debbano permettere ai poveri di fare qualcosa, anche se si tratta di vecchi e di lebbrosi.


La gente del posto va coinvolta direttamente nei progetti e, se serve, educata al lavoro. Oltre che beneficiaria deve diventare protagonista». Dunque, lei è contrario alla solidarietà pubblica? «Sì, se gli aiuti statali vengono dati a pioggia ai governi locali che non sono in grado di scalfire i bisogni veri. Le tasche dei poveri finiscono per rimanere vuote, senza contare quanti di questi contributi vengono destinati alle armi». Ha quasi 77 anni e porta ancora le conseguenze di un incidente stradale che l'ha reso invalido all'80%, eppure non si stanca di viaggiare, oltretutto da solo. Con quale forza? «Con quella che mi trasmettono le persone bisognose cui riesco a dare una nuova possibilità. Sto per concludere un viaggio che ha toccato Laos, Cambogia, Vietnam e Filippine. Il mio 59º viaggio. Mi appoggio ai missionari, li conosco da decenni, e sto attento a spendere il meno possibile per non sottrarre risorse ai poveri. Anche per questo, benchè qualche volta sia stato accompagnato dai miei figli o da qualche volontario, preferisco muovermi da solo. Riesco a fare più cose». Ci vuole ricordare come ha conosciuto madre Teresa di Calcutta? «Bombay, novembre 1977. Ero assieme al grande missionario padre Aurelio Maschio che me l'ha presentata. Madre Teresa, proprio lei, l'angelo dei moribondi dell'India, il nobel per la pace, era lì minuta e sorridente avvolta nel suo sari. Mi è venuta incontro congratulandosi per l'operato de “I nostri amici lebbrosi”. Io mi sono sentito di prometterle che avrei continuato a fare quanto potevo, aggiungendo che mi sentivo «un lebbroso dello spirito».


La sua risposta è stata «me too», anch'io». Come mai la lebbra non è ancora una malattia debellata? «In alcune aree della Terra è stata sconfitta e potrebbe essere definitivamente cancellata ovunque, ma dovrebbe cambiare il mondo. Finchè ci sono fame e miseria non c'è speranza. Ma il mio impegno, come amo ricordare riprendendo lo slogan del giornalista mio amico Raoul Follerault, è “contro tutte le lebbre”, perciò carestie, sfruttamenti, emarginazione». Di quali altre “lebbre”, per dirla come Follerault, si occupa nel concreto il suo sodalizio? «Ci sono infanzie molto bisognose, come i meninos de rua brasiliani, gli africani colpiti dall'Aids o i piccoli accaparrati dall'industria del sesso in Thailandia. E poi le donne, vittime di insopportabili sofferenze fisiche e morali e, specie in talune regioni dell'Africa, di un analfabetismo che le condanna a una vita senza dignità. Molto si può fare con i nostri progetti a misura d'uomo: un pozzo, una scuola, una struttra di accoglienza. Di queste realizzazioni, viene controllato tutto dall'inizio alla fine e tutto viene documentato». Qual è, tra le tantissime cose che è riuscito a realizzare in questi anni, quella per la quale va più orgoglioso? «È il fatto di essere riuscito, dopo qualche tentennamento, a stringere i monconi dei lebbrosi, che mi guardano con la gioia di non essere più considerati maledetti, e a baciarli».

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