Casati, l’esploratore che vuole spingersi oltre i limiti conosciuti

Da vent’anni lo speleosub si confronta con il Gorgazzo. A sostenerlo è la passione per tutto ciò che è nuovo

PORDENONE. «Record è una parola che non mi piace, una parola che non mi appartiene perché riduce a numeri e banalizza la passione di un uomo». Parla schietto e diretto Gigi Casati, lo speleosub che nelle scorse settimane ha tentato più volte di scendere oltre i 212 metri nelle acque del Gorgazzo, per poi rinunciare (per il momento) a causa di una forte contrattura muscolare alla schiena e delle condizioni di non buona visibilità all’interno della grotta.

Quei 212 metri sotto la superficie della verde pozza che è una delle sorgenti del Livenza li aveva raggiunti lui già nel 2008, ma sono circa vent’anni, dal 1996-’97, che Casati conosce e frequenta il Gorgazzo.

«Allora non ne avevo neanche mai sentito parlare – racconta Casati, seduto alla locanda del parco di San Floriano, suo campo base durante la permanenza nella Pedemontana pordenonese –. L’ho scoperto per caso grazie a un amico svizzero speleologo. E’ una grotta molto bella, con una visibilità costante tutto l’anno, tra le migliori al mondo».

Anche la parola “speleonauta” con cui di solito viene definito non gli va troppo a genio: “navigatore delle grotte” significa questo termine di etimologia greca. «Io sono un esploratore, un esploratore vero nel senso che mi piace spingermi in posti dove nessun altro uomo è mai giunto prima, posare il mio sguardo su cose che nessun paio d’occhi umano ha mai guardato prima. Tutto il resto conta poco per me».

Sin dagli inizi della sua attività di sub, prima, e di speleonauta, poi, Gigi Casati ha sempre cercato questo: l’ignoto, il non conosciuto, il mai visto. Una sfida che lo ha portato in giro nei mari e negli oceani di mezzo mondo, dentro grotte di incredibile bellezza, per scoprire le meravigliose costruzioni dell’acqua e del tempo e i resti di animali e vegetazioni vissuti decine di migliaia di anni fa.

Casati è un uomo di lago, essendo nato a Lecco nel giugno 1964. E fu proprio nelle acque di “quel ramo del lago di Como” che, a soli 14 anni, cominciò le sue immersioni. Nel 1978, infatti, in 5 mesi di corso in piscina, aveva appreso le tecniche d’immersione con autorespiratore ad aria.

«Acquistai il materiale pezzo per pezzo – ricorda oggi – cominciando da una muta umida monofoderata di seconda mano che, più volte rattoppata, ha resistito per sei anni. Partivo da casa in motorino, con ogni tempo e in ogni stagione, la sacca dell’attrezzatura fra le gambe e la monobombola da 18 litri sulla schiena. Direzione: il lago».

Nel 1981 ottenne il primo grado Anis (Associazione nazionale istruttori subacquei), il primo di una lunga serie di brevetti, nazionali e internazionali, conseguiti anno dopo anno sino al 2009. La sua idea era di fare il sub e l’istruttore di immersioni e basta. «Ho scoperto la speleologia per caso – afferma Gigi Casati –. Non mi attirava: ti sporchi di fango, patisci un freddo terribile e devi strisciare in posti impraticabili. Poi sono capitato a fare da sherpa per una spedizione svizzera, proprio nel lago di Lecco, e si è iniziato tutto. Ho appreso le più avanzate tecniche dalla scuola svizzera e da quella francese e ho avuto, fra i miei maestri, Jean Jacques Bolanz e Christian Locatelli».

Casati parla di Bolanz come di un padre e sono commoventi le sue parole quando rievoca il tragico episodio della morte del sub svizzero, avvenuta durante un’esplorazione nel mare del Peloponneso nel 2007. Fu proprio Casati a immergersi per recuperare il corpo dell’amico.

«L’ho trovato a meno 93 metri, risalito dai meno 152 che aveva raggiunto. Ho pianto in acqua nel vederlo così abbandonato nella profondità di un sonno senza risveglio».

Un uomo che va a caccia dell’ignoto ha paura? «Chiunque pratichi uno sport cosiddetto estremo se non ha paura è un falso – risponde il sub lombardo –. La paura è necessaria perché ti fa capire sin dove spingerti, ti indica il limite di quel momento, in quella circostanza. Sapendo che puoi sempre riprovarci». Paura, ma anche stupore, meraviglia e a volte tristezza: sensazioni forti, magari opposte fra loro, accompagnano lo speleonauta nelle sue imprese.

Gigi Casati, che di professione fa l’istruttore sub, pratica nuoto, alpinismo, sci alpinistico, ciclismo, kayak e, soprattutto negli ultimi tempi, volo con il parapendio.

«Anche il volo mi sta dando grandi emozioni – dice – e sono convinto che si debbano avere altri interessi per non rischiare di fossilizzarsi. Mi piace praticare sport diversi, mi piace soprattutto il contatto con la natura, anche soltanto andando a far legna nel bosco, da solo, per una giornata intera. Ma difficilmente posso rinunciare alla subacquea».

Fra il 1997 e il 2015 Casati – che è cavaliere della repubblica e medaglia di bronzo al valore civile per aver messo in pericolo la propria vita pur di recuperare la salma di un compagno morto in immersione a Nesso, nel lago di Como, nel 1992 – ha partecipato a una sessantina di spedizioni in Italia e a 85 in giro per il mondo, dalla Francia alle Filippine, dal Messico alla Croazia, dalla Grecia alla Russia. «Vedi gallerie con forme bizzarre di erosione, che non si possono neanche lontanamente immaginare, conosci i piccoli animali di quel mondo, trovi reperti archeologici antichi. E poi le spedizioni ti portano a vivere per molti giorni in posti diversi, a contatto con persone molto diverse da te, e questa è una grande cosa».

Oggi la tecnologia dei materiali e le nuove attrezzature hanno reso più facile anche l’impresa estrema di uno speleosub. «Se qualche anno fa mi portavo dietro un propulsore di 120 chili – spiega – ora ne ho uno di 20. Per non parlare dello scooter, in uso già dagli anni Ottanta, grazie al quale raggiungi ragguardevoli profondità in poco tempo. Tutto questo, però, ha un risvolto: un’impresa più facile risulta anche più banale e di livello inferiore». Un consiglio per i giovani aspiranti speleonauti? «I tempi sono cambiati.

Mi sembra di vedere che oggi i giovani non si appassionano più a niente. E senza passione quest’attività non ha senso. A esplorare grotte sott’acqua non fai i soldi. Bisogna crederci e dedicarci l’anima. Passione, è questo il segreto di tutto».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Messaggero Veneto