Carmine Abate: «Il successo non mi farà perdere la testa»

Il vincitore del Campiello 2012 ieri ospite al convento di San Francesco. Le origini calabro-albanesi a Carfizzi: «L’Italia è piú ricca con le diversità»

PORDENONE. È ormai una piccola tradizione, incastonata nel giorno in cui Pordenonelegge apre al suo pubblico. Per il terzo anno consecutivo si rinnova, ieri sera al convento di San Francesco, l’appuntamento con il vincitore del premio Campiello, per il 2012, con La collina del vento, lo scrittore Carmine Abate. Un romanzo che in Italia è in testa alle classiche e che cinquanta editori stranieri – dice Abate – chiedono di pubblicare. «Ma non sarà questo a farmi perdere la testa: fra un mese compio 57 anni, so come vanno le cose in questo mestiere...».

E quanto al suo mondo, che il romanzo porta alla ribalta: «Le parole sono come delle esche che portano in superficie le storie. Quelle in lingua arbëreshe, della mia infanzia, per esempio, e quelle dei germanesi, filtrate dall’italiano, la lingua appresa, all’età di sei anni con l’ingresso a scuola. Sono parole che contengono un mondo, il mio mondo, la mia terra, parole della lingua in cui penso e sogno, che traduco simultaneamente nella lingua che ho dovuto apprendere». E Abate ci consegna in questo modo, con la sua biografia plurilingue e con la luce che gli compare negli occhi, quando parla della sua tradizione calabro-albanese, il segno concreto di una speranza. Racconta quasi divertito dello stupore che muove, di quando a Carfizzi, paese totalmente di lingua arbëreshe (comparsa in Italia già nel ’400 e oggi con 100 mila parlanti sparsi in 50 paesini come Carfizzi), i bambini come lui che entravano in prima elementare venivano affiancati da un compagno di quinta che traduceva le parole della scuola in italiano.

Colpisce quanto sia simile la dimenticata ricchezza del bilinguismo tra regioni e culture per altri versi lontanissime, e descrive come dalla parola varranca, prestito spagnolo mescolato con l’albanese che significa burrone e indica i bambini che come lui passavano le giornate in giro per la campagna, da sola abbia dato origine a uno dei suoi romanzi. Avvince il pacato orgoglio di appartenere a una minoranza che non si è mai chiusa, ma che al contrario ha trovato nel dialogo la ragione di una sopravvivenza secolare. Racconta dell’urgenza di scrivere, che lo ha colpito giovane adolescente, della fame di libri, mai acquetata, di una copia di Anna Karenina, trovata per caso nella dispensa mentre cercava un barattolo di sugo, persa a poi ritrovata nella valigia di suo padre, emigrante per necessità e mai riconciliato con lo strappo che la vita gli aveva imposto.

Non come lui, che invece ha imparato presto a vivere per addizione, aggiungendo alla sua memoria la realtà del “nuovo”, e che per giunta scrive per addizione, sommando all’albanese «lingua del cuore», l’italiano e il tedesco «lingue del pane». Di quel padre che «aveva comprato la fatica» investendo i primi risparmi della Germania in due pezzi di terra, e della cura per le olive, «guai a perderne una», non per avarizia, ma per quell’antico riguardo per la terra e la natura. Che diventa metafora del rispetto per la memoria, uno dei temi ricorrenti nella scrittura di Abate, insieme al tema del razzismo e dell’emigrazione.

«Scrivo delle cose che ho vissuto», precisa consegnando al lettore il racconto autentico di un mondo complesso. E torna la metafora della famiglia Arcuri protagonista del premiato La collina del vento, simbolo della vincente caparbietà di chi rispetta le proprie radici.

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