Carlo Ginzburg e i modi di scandagliare il passato
Parteciperà al dibattito ''Tempo vicino e tempo lontano - Storia e filosofia a confronto''
Dalla metà del secolo scorso, dopo il diffondersi della lezione della scuola francese "Les annales", storia e microstoria almeno per il grande pubblico, hanno assunto pari valenza. Carlo Ginzburg, uno dei maggiori storici italiani (che sarà protagonista anche a Vicino/Lontano), figlio di Leone, letterato antifascista di origine russa arrestato e morto in carcere nel 1944 e della scrittrice Natalia, che, dopo aver insegnato all'Ucla di Los Angeles, attualmente è alla Normale di Pisa, in proposito dice: «Vorrei dissipare subito un equivoco: la microstoria non si occupa di piccola storia, si occupa di storia in maniera analitica, con uno sguardo ravvicinato. Nella collana einaudiana Microstorie, di cui mi occupai per molti anni insieme a Giovanni Levi e a Simona Cerutti, pubblicammo, tra l'altro, un libro su Piero della Francesca scritto da me, e un libro su Galileo scritto da Pietro Redondi. Sotto la lente del microscopio si può mettere un'ala di libellula, o un pezzetto di pelle d'elefante. È lo sguardo che conta; le domande che facciamo. Io penso che la microstoria ponga sempre, in maniera esplicita o implicita, un problema di generalizzazione. Si parte da un caso circoscritto (tutti i casi, grandi o piccoli, lo sono) per capire qualcosa di più generale. Magari si tratta di un caso anomalo: ma ogni anomalia contiene in sé la norma. Non è vero l'inverso».
Con le sue inchieste nella microstoria, Ginzburg, ha sempre scavato fatti anche remoti, trovando in ciascuno nessi sorprendenti, ossia Il filo e le tracce di cui recita il titolo del suo ultimo saggio pubblicato da Feltrinelli. Preceduto negli anni da titoli come I benendanti, Il formaggio e i vermi, Storia notturna, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Nessuna isola è un'isola, a parte l'incursione nell'attualità più vivace costituita da Il giudice e lo storico in difesa di Adriano Sofri, anche Il filo e le tracce, secondo una precisa linea connettiva tra realtà e immaginazione, rievoca situazioni e voci del passato. Si tratta, per esempio, della valutazione dei processi di stregoneria, da cui è possibile ricavare un rapporto del tutto nuovo tra persecutore e perseguitato.
- Ogni volta di fronte a un suo libro, ci si stupisce di scoprire termini nuovi della ricerca e allo stesso tempo fatti o testi che avevamo già frequentato, improvvisamente acquistano valenze nuove o addirittura capovolgono le nostre opinioni. Da quali incentivi intellettuali sono motivate di volta in volta le sue esplorazioni letterarie?
«Mi capita sempre più spesso di occuparmi di temi nuovi per me, e molto diversi tra loro. I motivi sono vari: la curiosità, una forma di irrequietezza che si è accentuata con l'età, e soprattutto il piacere di imparare. Meno so, e più imparo; più imparo, e più mi diverto. Mi piacerebbe condividere con chi mi legge il piacere della scoperta. E poi, in fondo, c'è la speranza di capire qualcosa su un determinato argomento che gli specialisti, accecati dalla assuefazione, magari non hanno visto. Naturalmente tutto questo comporta dei rischi: commettere errori, scoprire l'acqua calda. Ma rischiare bisogna».
- Che cosa la guida nella scelta dei temi? Quanto conta l'attualità?
«Anzitutto il caso. Mi è capitato tanto tempo fa di passare degli anni su una ricerca cominciata gettando un'occhiata su un libro aperto nella vetrina di un libraio antiquario a Londra. Se avessi preso un'altra strada, quel giorno d'estate, la mia vita sarebbe stata un po' diversa; magari molto. Ma questo succede a tutti. Il caso esiste, però noi, a nostra volta, reagiamo ai casi: tranne quando il caso ci schiaccia, non ci lascia scelta. Quindi riconoscere l'importanza del caso non vuol dire negare la responsabilità che ognuno ha dei propri atti: al contrario. L'attualità? certo influisce sulla scelta dei miei temi, ma raramente in forma immediata».
- Film come il Dies Irae di Dreyer, sono, a suo avviso, testimonianze di funzioni affini a quelle da lei studiate?
«Quel film è stato molto importante per me. Lo vidi da ragazzo. Mi colpì soprattutto la scena in cui i giudici interrogano la presunta strega: una vecchia grassa, seminuda, che è stata appena sottoposta alla tortura e rabbrividisce di dolore e di freddo. I giudici formulano le loro domande con aria triste, tranquilla. Ciò che li muove non è il sadismo, ma il pregiudizio. Di questa scena mi ricordai qualche anno dopo, quando decisi di occuparmi di processi di stregoneria. Mi parve (come scrissi più tardi, in un saggio su cinema e storia) che nessuno storico avesse capito in maniera così profonda quello che aveva capito Dreyer».
- Lei ha insegnato a lungo in università straniere, ed è rientrato in Italia in un momento in cui i nostri atenei hanno grossi problemi. Qual è la situazione italiana rispetto a quella americana?
«Credo che i concorsi condotti su base locale abbiano abbassato gravemente il livello delle università italiane. In particolare, hanno aggravato anche in quest'ambito il divario tra Nord e Sud. Naturalmente parlare di Nord e Sud come di blocchi omogenei non ha senso. Ci sono molte eccezioni: ma il divario complessivamente esiste. Scelte condotte su base locale hanno senso in un sistema di totale concorrenza, come quello statunitense; in Italia abbiamo assenza di concorrenza e localismo. È una combinazione pessima».
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto
Leggi anche
Video