Caporetto, le bugie sulla disfatta

Centinaia di libri, ma tutti in certo modo autoreferenziali. E tendenze ideologico-storiografiche diverse, ma cospiranti nell’attenzione per la “guerra alla guerra”. Di qui l’origine del mito negativo. Caporetto fu invece una resistenza combattuta con disperato coraggio, in cui rifulse al massimo il valore dei soldati italiani.
Questa la tesi de Le bugie di Caporetto. La fine della memoria dannata, ponderoso studio di Paolo Gaspari, patron dell’omonima casa editrice udinese, specializzata in testi di storia militare. Settecento pagine che ribaltano completamente l’interpretazione data sinora alla rotta dell’autunno 1917, e che non mancheranno di suscitare polemiche.
«Accadde il contrario di quello che finora si è detto: gli italiani combatterono sempre, e persero perché in inferiorità di numero, di fuoco, di armamento e di comando», nota l’autore. «Tra perdere con onore e perdere con disonore c’è una bella differenza. C’è il senso di sé di un popolo».
– Gaspari, ci vuol coraggio per confutare quasi cent’anni di storiografia ufficiale...
«Già, ma va detto che in Italia abbiamo dei difetti d’impostazione. All’università la storiografia militare non esiste. C’è in un paio di atenei, dove si studiano eventi che arrivano al ’700. Sicché la ricerca d’archivio è carente»
– Pure Caporetto è l’episodio più indagato di tutta la storia nazionale.
«C’è una sterminata bibliografia, ma basata su atti ufficiali e memoriali, in genere scritti da persone lontane dalla prima linea. Io sono andato a vedere le relazioni di 7.000 ufficiali fatti prigionieri nei quindici giorni di Caporetto. Il più grande giacimento della memoria degli italiani, pochissimo consultato».
– Un lavoro ciclopico.
«Tre anni per fotocopiarlo, altri tre per acquisire delle traduzioni dal tedesco. Alla fine ne è uscito un quadro completamente diverso da quello della vulgata corrente».
– Ovvero?
«Che la sconfitta è dovuta solo al fatto che gli italiani erano in condizioni di inferiorità su tutti i fronti. Ciononostante resistettero, e lo sfondamento avvenne solo per una fortunata casualità».
– Chiariamo meglio.
«Il piano originario del nemico era di attaccare l’ala sinistra. Vennero concentrate, celando la manovra, cinque divisioni contro una sola italiana, oltre 1.500 bocche da fuoco contro 280, e un buon numero di mitragliatrici leggere, trasportabili da un solo uomo, contro quelle fisse. Cionostante la manovrà fallì».
– Fallì?
«Sull’ala sinistra cedette la prima linea, ma la seconda resistette. Lo stesso avvenne presso Plezzo, dove pure furono usati i gas. Lo sfondamento vero, quello di 27 chilometri in un giorno, lo si deve alla XII Divisione slesiana, tutt’altro che truppe scelte, che procedendo lungo l’Isonzo arrivò a Robic, già in Val Natisone. Fu un colpo di fortuna, nascosto dagli stessi autro-tedeschi. Poi, nei giorni immediatamente successivi al 24 ottobre, soldati e ufficiali italiani combatterono tanto eroicamente quanto inutilmente».
– E la fuga, la resa senza combattere, l’uccisione degli ufficiali?
«Leggende favorite da Cadorna, Rommel, e da una interpretazione storica posteriore. Mussolini su Caporetto gettò un telo catramato: se avesse imputato la sconfitta ai soldati avrebbe negato le virtù guerriere italiche, se avesse puntato il dito contro gli ufficiali, si sarebbe messo contro la casta militare. Poi la cultura di sinistra e quella cattolica pacifista hanno cancellato la straordinaria epicità di quei giorni».
– Cadorna come lo giudica?
«Ottimo ufficiale sino a Caporetto, sbagliò, e disse che i soldati avevano tradito con ignominia, perché ne era convinto. Se è un massacratore, quale generale non lo è? Le inumane condizioni affrontate dalle nostre truppe non sono una montatura, però gli italiani si batterono, e spesso si immolarono, tenendo le posizioni anche quando queste erano chiaramente già perdute, come forse nessun altro esercito ha saputo fare nel corso della guerra».
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