“Big Cowboy” in concerto
Cambiamenti climatici, Covid, contraddizioni sempre più eclatanti (da un lato Perseverance che raccoglie i primi campioni di roccia marziana, alla ricerca di tracce di vita, dall’altro le strade di Kabul che di vita si svuotano, perdendo le tracce della presenza femminile), real-brutalità, social-banalità, e chi più ne ha più ne ometta.
Questa settimana il susseguirsi di notizie che testimoniamo la tempesta globale perfetta che sembra in atto, condite con news nostrane e preoccupazioni private, mi ha ansiato così tanto che per riprender fiato ho dovuto leggere della morte del Sole.
A quanto pare, un team di scienziati ha riportato in luce la teoria della nebulosa planetaria per stabilire come e quando il Sole morirà, ma per fortuna noi umani non saremo lì a preoccuparci in quanto già scomparsi da tempo.
Soltanto questo esercizio, di perdermi con la mente tra spazi infiniti e miliardi di anni e nebulose planetarie e giganti rossi e nane bianche e oceani evaporati e stelle e gas e polveri e tutto così, è riuscito a calmarmi l’animo. A farmi sentire che di fronte all’immensità i miei e i nostri problemi in fondo son niente, eppure anche tutto, se è vero che noi uomini siamo pur sempre un ingranaggio del cosmo.
E così, mentre camminavo per le vie di una città che si presta a ospitar libri e pagine e lettere, una città che non è altro che un puntino minuscolo nella mappa del tutto (Pordenone? Near Venice...), ho cominciato a pensare ai corpi celesti che formano il nostro pensiero, ai versi che costellano la nostra volta interiore.
All’altezza del San Giorgio, “E il naufragar m’è dolce in questo mare” mi ha riempito di sconfinata dolcezza. E più giù, lungo corso Vittorio, nonostante fosse ancora giorno, mi è tragittato per la testa “Ed è subito sera”. Ma poi, ancora più giù, sotto un lampione rotto, m’ha fatto luce (una luce lucente e intraducibile) “M’illumino d’immenso”.
E dopo che “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” (anche se ero sola e i gradini al termine del corso poco più di una manciata), una volta arrivata a destinazione “L’amor che move il sole e l’altre stelle” mi ha commosso fino alle lacrime.
Il Marcolin non è certo il Paradiso, okay. Ma cosa volete, la mia vecchia e acciaccata auto era, come quella di tutti noi, parcheggiata lì.
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In soccorso: la scienza ovvero la poesia. —
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