Bancarotta, più di 16 anni alla famiglia Sistro

Chiuso a Udine il processo per la distrazione di 1,2 milioni di euro dai negozi di Mazzorato
Di Luana De Francisco
ANTEPRIMA UDINE GENNAIO 2002 TRIBUNALE NUOVO TELEFOTO COPYRIGHT FOTO AGENCY ANTEPRIMA
ANTEPRIMA UDINE GENNAIO 2002 TRIBUNALE NUOVO TELEFOTO COPYRIGHT FOTO AGENCY ANTEPRIMA

SAN GIORGIO DI NOGARO. Sette anni di reclusione a Giuseppe (detto Paolo) Sistro, tre a suo figlio Agostino Sistro, due anni e quattro mesi all’amministratore della loro azienda, Massimo Bistoni, e due anni l’una a Loredana Pascarella, moglie di Agostino, e a Maria Sistro, figlia di Giuseppe: si è chiuso così, con una raffica di condanne a carico di una sola famiglia e del loro più stretto collaboratore, il processo per bancarotta fraudolenta della Commerciale Friuli srl di San Giorgio di Nogaro. Ossia della società operante nel settore del commercio di abbigliamento che, nel 2010, aveva rilevato la Cdm srl, del gruppo Mazzorato, all’epoca in liquidazione e con nove punti vendita sparsi tra il Friuli (a Sacile a Trieste) e il Veneto (da Padova a Bibione e da Conegliano a Rovigo), e che fu dichiarata fallita nell’ottobre del 2011.

Il verdetto è stato emesso ieri, dal tribunale collegiale di Udine (presidente Angelica Di Silvestre, a latere Mauro Qualizza e Mariarosa Persico), al termine di una Camera di consiglio durata oltre tre ore. La sentenza ricalca per buona parte le richieste formulate al termine della discussione dal procuratore facente funzioni, Raffaele Tito, che oltre ai sette anni del capofamiglia, 59 anni, nativo di Udine e residente a San Felice a Cancello (Caserta), aveva sollecitato quattro anni e cinque mesi per Agostino, 34 anni, originario di Palmanova, e tre anni per tutti gli altri imputati.

Nel procedimento era rimasta coinvolta anche Maria Rosaria Carfora, 31 anni, residente a San Giorgio di Nogaro, moglie di Giuseppe Sistro e per la quale i giudici hanno pronunciato l’unica assoluzione, con la formula «per non aver commesso il fatto», oltre a quella emessa a favore della Pascarella, 31 anni, anche lei residente in provincia di Caserta, per il solo ulteriore capo d’imputazione relativo alla dichiarazione infedele, contestato anche a Bistoni, 48 anni, di Perugia, e a Sistro “senior” (indicazione di ricavi pari a zero, per il periodo d’imposta del 2010, a fronte del milione 623.484 accertato). Tra le pene accessorie, il collegio giudicante ha dichiarato gli imputati inabilitati all’esercizio di un’impresa commerciale e incapaci a esercitare uffici direttivi in qualsiasi impresa per dieci anni. Giuseppe Sistro e Bistoni sono stati dichiarati anche perpetuamente interdetti dall’ufficio di componente delle commissioni tributarie.

L’accusa principale vedeva tutti gli imputati chiamati a rispondere di concorso nella distrazione degli incassi derivanti dai negozi di Mazzorato, per un totale di quasi 1,2 milioni di euro. Il meccanismo, secondo la Procura, consisteva nel fare migrare i capitali ottenuti dalla vendita di capi d’abbigliamento da un’azienda all’altra del labirinto costituito ad hoc dai vari componenti della famiglia. Oltre 525 mila euro sarebbero finiti alla Sma srl, altri 295 mila alla Sistro immobiliare srl, 15 mila alla Carchiaia srl, 185 mila alla Rossi costruzioni spa, 95 mila alla Sistro immobiliare, 21 mila alla Costruzioni il mattone srl. Senza contare i quasi 343 mila euro versati in favore di soggetti diversi, in assenza di specifiche giustificazioni.

«Una pena assolutamente spropositata - ha commentato l’avvocato Francesco Murgia, del foro di Treviso -. Se la parametrassimo ai guai in cui è incorso Callisto Tanzi, per il patron di Parmalat avremmo dovuto allora immaginare una pena di almeno 400 anni di carcere». Per questa vicenda, padre e figlio Sistro erano stati arrestati dalla Guardia di finanza nel settembre del 2012. Agostino era stato raggiunto dall’ordinanza di custodia cautelare all’aeroporto “Catullo”, dove era appena sbarcato da un volo proveniente da Napoli. La misura di Giuseppe era stata notificata a Riva del Garda, nell’appartamento in cui l’imprenditore risiedeva. «In Italia - ha aggiunto il legale -, dovremmo imparare a distinguere tra giustizia, che è una tensione morale, e legalità, che è il metodo. Qui, si è teso a un principio morale. Ma nei tribunali non si può giudicare con parametri che esulino dalla legalità». Scontato l’appello.

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