Alcune regioni sono gialle, altre arancioni: retroscena e trattative, ecco cosa si cela dietro lo scontro con il Governo

UDINE. È più o meno metà mattinata quando Massimiliano Fedriga, nella discussione con gli altri presidenti di Regione, getta nella mischia una proposta che scoperchia, per molti versi, il vaso di Pandora dei sospetti e dei veleni che da giorni attraversano i corridoi dei vari Palazzi del potere.
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«Scusate – chiede il governatore ai suoi colleghi –, ma io non capisco una cosa. Se i criteri sono oggettivi, chiari, totalmente scientifici e rappresentano l’unica cartina tornasole attraverso la quale il Governo stabilisce le fasce di rischio per le Regioni, allora perché Roma non ha mai predisposto un semplice cruscotto nazionale? Un programma, impostato su questo famoso algoritmo, in cui le singole Regioni inseriscono i loro dati e automaticamente vengono a conoscenza della zona in cui sono statie posizionate. Senza problemi e nella più totale trasparenza».
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Una teoria, questa, che fondamentalmente convince i governatori. Non tanto da un punto di vista tecnico – perché il vero obiettivo delle Regioni è quello di modificare, riducendone per numero e portata, il numero dei parametri utilizzati per colorare l’Italia di giallo, arancione e rosso –, quanto strettamente politico. Il sospetto che aleggia da giorni tra i presidenti, in un clima che comunque, vale la pena evidenziarlo, pare sempre più spesso da ognuno per sé e Dio per tutti, è infatti che tra algoritmi, numeri, criteri e comunicazioni più o meno fumose e all’ultimo minuto, a fianco delle decisioni scientifiche ce ne siano di politiche, altrettanto pesanti, che intrecciano i destini, presenti e futuri, del Governo nazionale.
L’ultima suddivisione in fasce di rischio del Paese, cioè, non ha fatto altro che alimentare un clima di sospetti e mezze parole che, certamente, non aiuta in questo momento di ritorno prepotente della pandemia e più di qualche presidente, pur sempre in maniera informale, ritiene che dalle parti di palazzo Chigi si sia voluto calcare la mano o salvare i territori a seconda di chi li governa. Sia chiaro, una teoria del genere porta con sé tutto il più classico repertorio di dietrologie e, perché no, pure di complottismo, ma resta il fatto che il pensiero scorre da tempo, come un fiume carsico, tra le Regioni ed è difficile da ignorare.
Il dato in base al quale in molti hanno storto il naso è essenzialmente legato alla situazione di Lazio e Veneto restate in zona gialla. Il ragionamento, entrando nel concreto è il seguente, e porta a pensare che il Lazio sia stato salvato anche perché è la Regione di Nicola Zingaretti, segretario nazionale del Pd, e che una penalizzazione del territorio di uno degli azionisti di maggioranza del Governo debba avvenire soltanto in caso di estrema necessità. Il Veneto, che venerdì pare essersi salvato per uno 0,03 di Rt, è invece la Regione di Luca Zaia, non soltanto potentissimo governatore del Nordest, ma anche possibile, se non probabile, antagonista di Matteo Salvini e dunque – anche in questo caso seguendo il ragionamento cospiratorio – da trattare con un occhio di riguardo.
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E se la Campania, passata direttamente da zona gialla a rossa senza nemmeno essere traghettata in quella arancione, pagherebbe la situazione interna, evidenziata anche dalle immagini televisive come quelle del Cardarelli, ma pure gli strali di Vincenzo De Luca scagliatosi contro mezzo Governo prima di chiedere al Pd di staccare la spina al Conte II e varare un esecutivo di unità nazionale, la Toscana, scivolata in una settimana da un giudizio di rischio moderato a quello di rischio elevato, verrebbe considerata – ribadiamo sempre nelle teorie di Palazzo – come non pericolosa per la tenuta degli assetti romani visti i toni tradizionalmente bassi di Eugenio Giani. Restano, poi, i casi del Friuli Venezia Giulia e dell’Emilia-Romagna.
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Il retropensiero politico, in questo caso, porta a credere che la nostra regione sia stata declassata anche in virtù delle possibili ambizioni di Fedriga di succedere a Stefano Bonaccini alla guida della Conferenza delle Regioni e che quest’ultimo pagherebbe dazio per essere – nei fatti – possibile competitor interno di Zingaretti non soltanto alla segretaria del Pd, ma pure per il ruolo di front runner nella corsa alla presidenza del Consiglio alle prossime Politiche.
Veleni, sospetti, mezze parole, pertanto, che al di là della poca o tanta attinenza con le scelte del Governo, creano un clima tra centro e periferia che non fa bene a nessuno in un panorama, tra l’altro, dove tra rimpalli di responsabilità, decisioni prese e rimangiate e presidenti che chiedono l’autonomia a targhe alterne – a seconda che si debbano stringere oppure si possano allargare le maglie delle libertà personali – non tutte le Regioni hanno fatto, in questi mesi, una grande figura, anzi.
Ma è anche per questo che una chiarezza totale del peso dei criteri utilizzati, e un’attinenza più stretta agli ultimi dati senza tararli su quelli del passato, regalerebbe non soltanto quella trasparenza di informazioni fondamentale per i cittadini sempre più confusi. Ma metterebbe pure le Regioni con le spalle al muro. Perché i sospetti sono una cosa, i numeri, invece, un’altra e difficilmente mentono. A condizione, beninteso, che siano chiari e inequivocabili.
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