Al nono mese di gravidanza, il viaggio da Resia tra frane e disperazione

RESIA. Alle 21 quando la terrà tremo, Amelia Regeni al nono mese di gravidanza era nella sua casa di Resia con il marito Gianni Bergamini. Lei di Marano Lagunare, lui impiegato delle Poste di Ferrara, si erano conosciuti d’estate nella vallata dove il 6 maggio successe il finimondo.
Messi in salvo, lei pensò al suo bambino e decise di correre in ospedale pensando che il terremoto avesse colpito solo Resia. Non era così. Tentarono di raggiungere Udine, ma a Resiutta la frana li fermò. Qui Amelia perse le acque e per lei iniziò un vero e proprio calvario. Diede alla luce Marco alle 4 del mattino nell’ospedale di Tolmezzo già evacuato. Fu il primo bambino a venire al mondo dopo il terremoto. Il 23 maggio la sua storia era sulle pagine del settimanale Grazia.
«Arrivammo a Tolmezzo per opera della Misericordia, con il fondo della Fiat 127 consumato, assieme alla camionetta dei forestali» racconta ricordando le ore dopo il parto, mentre il bimbo veniva preparato per il trasferimento a Udine.
Lei fu sistemata su un materasso a terra tra tanti bambini feriti. Amelia si commuove non riesce a pensare a quei corpini fasciati con braccia e gambe rotte. «Rimasi lì per diverse ore, fino a quando un medico aprì la porta e si trovò di fronte a un lago di sangue. Avevo un’emorraggia».
Fu soccorsa e assieme al suo bambino partì a bordo di un elicottero per Udine. Quando il mezzo stava per atterrare arrivò il contrordine: «È in arrivo il presidente Leone bisogna dirottare su Cividale». Nessuno informò il marito che quando giunse a Udine non trovò né la moglie né il figlio. Fu costretto a chiedere ai carabinieri di fare un ponte radio per scoprire che si trovavano a Cividale.
Le condizioni erano precarie e il giorno successivo, quando arrivò una nuova scossa, anche questo ospedale venne evacuato. «Ero a letto con la flebo, sentivo gridare “la signora del 5”, mi alzai e seguii le voci. Mi presero sulle scale, mi svegliai in una Fiat 500. Poi - continua la signora - su una lettiga mi portarono in una tenda. Pioveva, la situazione era complicatissima, e un gruppo di militari mi portavano dentro e fuori da quella tenda. In quel caso persi mio figlio, lo trovarono i miei parenti una settimana dopo all’ospedale di Latisana».
Amelia venne dimessa, ma quando arrivo a Carlino, a casa della sorella, aveva la febbre altissima e un’infezione in corso. «Mi salvarono per miracolo» aggiunge ammettendo che con il senno di poi partire da Resia in quelle condizioni non fu la scelta giusta.
«Era meglio partorire in casa» ammette ringraziando, a 40 anni di distanza, tutti coloro che l’aiutarono in quelle circostanze. Compresi i militari. Ricordo le infermiere stanche morte e i medici che andavano in cerca dei terremotati. Il dottor Mario Rossi a bordo dell’elicottero mi tranquillizzava accarezzandomi la pancia. Avevo il terrore di volare, solo dopo mi rivelò che era la prima volta anche per lui».
A Marco raccontò questa epopea, ma a suo avviso solo quest’anno, nel quarantennale del terremoto, a Resia, ha capito l’entità della tragedia.
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