Addio a Cattalini, bandiera degli esuli

Il comandante degli esuli se ne è andato in un martedì di pioggia. Un giorno di grande malinconia per tutti quanti hanno conosciuto l’ingegner Silvio Cattalini, che avrebbe compiuto 90 anni il 2 giugno. E assieme a lui hanno amato una terra chiamata Dalmazia e una città, Zara, che riviveva attraverso le sue parole, i libri, i viaggi che organizzava per rivedere quelle strade rifatte dopo i bombardamenti a tappeto della seconda guerra mondiale. Una delle mete immancabili in queste immersioni nei sentimenti della gente che aveva perso un nido erano le Bocche di Cattaro e quando si arrivava a Perasto la voce di Silvio si incrinava nel ripetere le parole pronunciate dal capitano Giuseppe Viscovich a nome di tutti gli abitanti della zona, ultimi ad arrendersi alla fine della Repubblica di Venezia nel 1797.
Nel pronunciare quella frase in dialetto, rivolta al simbolo della Serenissima («Ti con nu, nu con ti»), Cattalini compiva commuovendosi un rito di profondo attaccamento a luoghi che poi continuava a raccontare a Udine, dove risiedeva dal 1972. Uno dei momenti più belli avveniva quando invitava il grande amico Ottavio Missoni, stupendo atleta prima e celebre stilista poi, che aveva conosciuto da ragazzo a Zara, frequentando il liceo Nicolò Tommaseo. Momenti e volti, come quello della professoressa di cui tutti gli studenti si innamoravano, descritti nel bellissimo libro “Esilio” di Enzo Bettiza.
Silvio Cattalini è morto martedì pomeriggio, 28 febbraio, nell’hospice del Gervasutta. Lascia la moglie Lia Cirello, i figli Fulvio, Sandra e Daniela, i nipoti, e lascia anche un profondo, sincero vuoto tra chi visse il dramma dell’esodo, i loro discendenti e quanti si sono avvicinati a queste sofferenze senza pregiudizi ideologici, ma con il desiderio di sapere e capire. Il racconto di Silvio partiva dalla sua famiglia, stupenda dinastia di costruttori di navi. Il cognome originario era Cattalinich, poi italianizzato sotto il fascismo.
La loro vita era il mare, in ogni aspetto e frangente, tanto che ben tre fratelli (uno dei quali era il padre di Silvio) vogarono sull’imbarcazione “otto con” che vinse alle Olimpiadi di Parigi la medaglia di bronzo. La loro società di canottaggio era la leggendaria Diadora.
La guerra sconvolse la Dalmazia e la vita della città. Agghiacciante il primo bombardamento angloamericano, il 2 novembre 1943, che provocò 163 morti. Era l’inizio di un calvario. Nel 1945, a 18 anni, Silvio fu arruolato nella Marina militare jugoslava a Pola, da dove scappò a Trieste per approdare definitivamente in Italia. A proposito di quel rapido periodo, l’ingegnere narrava rigorosamente in dialetto: “Iera solo el bereto con la scritta Rat Mornarica («Marina da guerra», copiando dal tedesco «Kriegsmarine»).
La divisa e i stivai iera quela dei tedeschi, il cinturon gaveva il teschio con la scritta «Got mit Uns» e tuti i ne rideva”. Iniziò così il suo esodo, mentre il padre Antonio, classe 1895, era imprigionato dai titini «per collaborazionismo coi tedeschi – come spiegò Cattalini in un’intervista a Elio Varutti –, ma i tedeschi se non se lavorava per lori i te copava subito, tocava armarghe le navi».
Silvio, una volta in Italia, studiò ingegneria al Politecnico di Milano, dove si laureò. Dal 1950 al 1963 lavorò alle Acciaierie Falck. Poi per due anni fu a Udine alla Safau, dove conobbe l’ingegnere Luigi Danieli. Per un decina di anni fu impegnato con la Deriver di Torre Annunziata, in provincia di Napoli. Dopo il terremoto del 1976 operò in Friuli, per venti anni, in qualità di libero professionista, fino alla pensione.
E proprio arrivando in Friuli, nel 1972, decise di impegnarsi alla guida del direttivo provinciale dell’Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, di cui divenne il presidente e l’anima ridandole vigore, passione, idee. Oltre a organizzare eventi, libri, spettacoli teatrali, sotto la sua guida nel 1975 iniziò il dialogo con gli italiani delle terre abbandonate, i “rimasti”.
Furono organizzati viaggi e gite in Istria e nei territori jugoslavi. Per molti esuli fu la prima volta dopo la fuga. Tra le attività più clamorose ci fu una serie di “crociere della pace”, definite il “capolavoro di Cattalini” in un articolo sul Messaggero Veneto di Mario Blasoni, il giornalista e amico che ha condiviso con Cattalini questi anni di impegno, nel segno d’una politica del disgelo in cui l’ingegnere ha sempre creduto.
Gli esuli e i friulani piangono oggi un gentiluomo.
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