Addio a Barnaba, l’ultimo elemosiniere dei frati Cappuccini

UDINE. Con la bisaccia a tracolla ogni mattina verso le 8 si incamminava per recarsi in negozi, bar e case private a ritirare le offerte per i poveri. Impossibile non notarlo con il saio, i sandali ai piedi e la sua barba bianca inconfondibile.
Padre Barnaba Gabini è morto sabato, all’età di 96 anni, nella casa di riposo per frati cappuccini di Conegliano. Fu l’ultimo elemosiniere di pane e generi alimentari per la mensa del convento di via Ronchi.
Nato a Nespoledo di Lestizza il 3 febbraio del 1920, sesto di dieci fra sorelle e fratelli – tutti mancati in tenera età – si avvicinò agli ideali francescani grazie al religioso Ermenegildo Tosoni, poi diventato missionario. Entrato nel 1937 nella grande famiglia dei cappuccini, il giovane Barnaba – conosciuto da molti con il soprannome di Ciro – fece i sei mesi di prova in provincia di Rovigo. La vestizione avvenne nel 1937. Quindi l’anno successivo passò a Bassano dove a dicembre iniziò il noviziato.
Nel 1941 si trasferì a Padova dove conobbe – e fece anche da cuoco “personale” – il cappuccino Leopoldo Mandic, morto nel 1942 e proclamato santo nel 1983.
A questo proposito fra’ Barnaba fu l’ultima persona a essere confessata dal futuro Santo. In quell’occasione guardando negli occhi il suo confratello di appena 22 anni padre Mandic disse in dialetto veneto, come era solito parlare: «Toso: morire ma stare» che significa «Ragazzo: piuttosto morire ma restare frate». Un consiglio che quel giovane ha portato dentro fino a 96 anni.
Dopo brevi periodi trascorsi in qualche convento del Veneto, nel 1946 Barnaba tornò in Friuli e conobbe la sua missione di frate elemosiniere, prima in via Ronchi, poi in via Chiusaforte, quindi nuovamente in via Ronchi. In città tutti lo conoscevano.
Partiva alle otto e per circa quattro ore della giornata andava per bar, negozi, panifici e case a chiedere l’elemosina per i poveri che poi portava puntualmente alla sera, di ritorno per le preghiere e la cena, alla mensa frequentata quotidianamente da una cinquantina di italiani, fra barboni e famiglie indigenti.
Tutto rigorosamente a piedi. E lui, in una intervista rilasciata ormai quindici anni fa al Messaggero Veneto scherzava: «Mi chiedete come è cambiata la città dal 1946? Si è trasformata molto, c’è un traffico continuo, tutti corrono. Soltanto io continuo ad andare a piedi: non solo non ho preso la patente, ma non ho nemmeno imparato ad andare in bicicletta».
E poi ancora: «A Udine mi conoscono tutti. Se non mi vedono per qualche giorno si precipitano a telefonare in convento. La gente è sempre generosa, mi riconoscono per strada, scambiamo qualche parola e mi donano offerte in denaro che poi io la sera porto in convento a favore dei poveri. Entro nei bar e mi offrono da bere. La prima cosa, ovviamente, è un cappuccino...».
Faceva dell’ilarità, come in questo caso, e del sorriso la sua arma vincente, come ricorda anche Padre Andrea Cereser: «Era una persona umile, sorridente e bonaria.
Portava conforto ai malati andando trovarli nelle loro case, nonostante l’avanzare dell’età gli impediva di affrontare ormai lunghe camminate. Un frate vero, semplice nei modi, affabile con tutti. Una figura semplice per le sue umili origini, ma dotato di bontà naturale che suscitava simpatia nella gente. Ogni domenica era solito andare a Castelmonte dove faceva l’aiuto sacrestano».
Da alcuni anni si era trasferito nella casa di riposo per i frati di Conegliano.
I funerali si svolgeranno oggi, vigilia della festa di San Francesco di Assisi, nel convento di Conegliano.
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