Fantoni, l’uomo che non si è mai fermato: «La curiosità è l’eredità più grande»
Dai 16 anni alla guida della Fondazione Internazionale Trieste alla sfida di Esof in piena pandemia, fino al sogno incompiuto di un Summer Institute. Ora lascia il testimone a Marina Cobal: «Torno alla ricerca, se i neuroni reggono. Ma non al giardinetto».

Stefano Fantoni è uno che va fino in fondo. Nel settembre 2020, mentre tutti gli dicevano di rinviare Esof per la pandemia, lui si impose: «Si fa, punto». E si fece, metà in presenza e metà online, format che sarebbe diventato la norma. È la stessa determinazione che a 15 anni gli fece scegliere la fisica invece del tennis, sport che pratica ancora.
Oggi, all’Urban Center, la Fondazione Internazionale Trieste (Fit) celebra i suoi 45 anni e il passaggio di testimone: dall’1 gennaio 2026 sarà la fisica Marina Cobal a guidarla. Fantoni lascia dopo 16 anni di presidenza, raccogliendo l’eredità di Paolo Budinich.
Un’eredità che ha fatto crescere: da champion di Esof alla segreteria dello Iupap trasferita a Trieste, dall’idea del Master in Comunicazione della Scienza alla battaglia incompiuta per formare scienziati che sappiano fare impresa. Livornese “duro e puro”, arrivato alla Sissa nel 1991, Fantoni ha attraversato oltre 30 anni del Sistema Trieste. Con una regola semplice: «Bisogna ascoltare, non solo sentire». Ora tornerà a fare un po’ di ricerca, «se i neuroni reggono...».
Professore, da Taranto a Pisa, da Lecce fino a Trieste nel 1991. Quale filo rosso ha guidato questo percorso?
«Fino ai quarant’anni non ho mai pensato che ci sarebbe stato altro oltre alla Fisica teorica. Sono nato a Taranto per caso, mio padre era marinaio. A Pisa ho fatto tutta la carriera. A quarant’anni diventai professore e dovevo fare gavetta. Mi mandarono a Lecce e mi innamorai di quella città. E lì cominciai a occuparmi d’altro, di mettere in piedi qualcosa che trattenesse i giovani bravi al Sud. Con la Sissa fu come tornare a casa».
Sei anni come direttore della Sissa. Oltre alla nuova sede sul Carso, cosa ha costruito?
«La vera eredità me l’ha lasciata Daniele Amati, con il Laboratorio Interdisciplinare. Lavoravo con Claudio Magris sui linguaggi scientifici e letterari. Creammo “Trieste Encounters in Cognitive Science”, momenti di confronto tra filosofi, sociologi, medici. Nacquero così le neuroscienze alla Sissa. E poi volli andare “in montagna”, tagliare i ponti con l’Ictp: ci voleva un’identità definita».
Poi il Master in Comunicazione della Scienza, che le valse il Kalinga Prize dell’Unesco.
«Nacque dall’incontro con Franco Prattico, il padre del giornalismo scientifico italiano. Lui soffriva perché i giornalisti non avevano formazione scientifica. Litigai perfino con un giovanissimo Mentana, che argomentava: «Come si fa a essere formati in tutto?». All’inizio volevamo formare i giornalisti, poi pensammo a una scuola per giovani. Per me era importante costruire un ponte tra scienza e società».
In quegli anni è nato anche il Master in Complex Action.
«Per insegnare ai dottorandi a fare impresa. La gamba mancante del sistema italiano: formare scienziati imprenditori. In Germania c’è il Max Planck per questo, in America il Santa Fe Institute. Da noi no. Lo istituii con difficoltà: troppi non ci credevano. Invece è fondamentale».
Oltre sedici anni alla Fit, con l’eredità di Paolo Budinich. Come l’ha vissuta?
«Ho continuato sul suo solco: Paolo voleva portare a Trieste l’eccellenza scientifica mondiale. E ho allargato all’innovazione tecnologica e all’impegno per rispondere alle domande della società. Esof significava questo: la scienza non ha confini, è strumento di pace».
Esof in piena pandemia. Tutti le dicevano di non farlo...
«Ma io l’avevo promesso all’Europa. Mi sono imposto: si fa, punto. Fummo i primi a organizzare una grande conferenza in formato ibrido. Ora sono tutte così».
Summer Institute al Porto Vecchio è rimasto sulla carta.
«Non ce l’abbiamo fatta. Mi dissero: di istituti a Trieste ce ne sono troppi. Facemmo un laboratorio sulla sostenibilità, ma è rimasto nano. Volevo un Summer Institute come Aspen. Spero che Marina Cobal porti avanti l’idea».
Altri rimpianti?
«Avrei voluto che il sistema della scienza sfruttasse di più la Fit e il suo ruolo di connessione con il territorio e le imprese. Sono convinto che chi mi succederà farà di più».
Un risultato chiave: la segreteria dello Iupap a Trieste.
«L’International Union of Pure and Applied Physics è l’unica associazione scientifica che include tutti i Paesi del mondo. Il merito va a Sandro Scandolo, che mi disse: “Perché non ci candidiamo?”. Io non ne sapevo niente».
Fuori dai laboratori, cosa fa Stefano Fantoni?
«Amo lo sport. Pratico ancora il tennis, faccio i tornei over 80. E c’è la famiglia, da sempre molto importante per me».
Cosa spera di aver trasmesso ai figli, ai nipoti?
«La curiosità. E l’idea che non esistono domande stupide, che gli scienziati devono saper spiegare a tutti perché fanno quello che fanno. Spero di aver insegnato a mantenere l’umanità. Ho paura che con questa tecnologia si perda. Le macchine arriveranno a simulare tutto. Anche le emozioni si possono ridurre a statistica, a probabilità. Ma noi siamo altro».
Cosa farà da gennaio?
«Un po’ di ricerca, se i neuroni reggono e se trovo giovani collaboratori. Di certo non mi troverete al giardinetto».
Riproduzione riservata © Messaggero Veneto







